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Quando scegliamo un alimento, il colore è una variabile molto importante nella nostra decisione finale. Alcuni alimenti sono dotati di un colore caratteristico già in origine, altri lo acquisiscono durante i processi di lavorazione, come ad esempio il beige della crosta del pane o il rosa del prosciutto cotto. Appena sente la parola “colorante”, il consumatore inizia subito a storcere il naso – come dargli torto, dopotutto –, è però importante sapere che esistono molti coloranti naturali (pigmenti), che ricaviamo proprio da piante che in natura possiedono già un colore caratteristico. La bella notizia è che molto spesso questi pigmenti naturali, oltre a deliziarci gli occhi con sgargianti colori, hanno anche effetti positivi per la salute umana.

È il caso della curcumina (E100), contenuta nella curcuma (Curcuma longa) – per secoli usata come tintura gialla per tessuti - o dei carotenoidi (E160a) – di cui il principe è il beta-carotene -, che danno il classico colore alle carote, ai cachi, al mango, alle alghe rosse e anche al famigerato olio di palma (che non a caso viene anche usato per conferire il colore giallino alle margarine). Il carotenoide forse più famoso – e positivissimo per la salute – è il licopene (E160d), che è il responsabile del colore rosso accesso del pomodoro e di tanti altri vegetali rossi. Come non pensare, poi, al caratteristico colore che lo zafferano conferisce ai gustosi risotti? Esso è dovuto a un altro carotenoide, la crocetina. Da sottolineare l’elevato costo di questo prezioso colorante naturale: sono infatti necessari ben 150 000 stigmi dei fiori di Crocus sativus per produrre 1 kg di spezia. Ma i carotenoidi non si trovano solo nel regno vegetale! Il bel colore acceso del tuorlo d’uovo è infatti dato da tipologie di carotenoidi detti luteina e zeaxantina, che la gallina ottiene proprio dall’alimentazione vegetale (da qui, è facile capire come il colore del tuorlo cambi molto a seconda di come l’animale viene nutrito).

Se pensavate di non aver mai mangiato insetti in tutta la vostra vita (discorso piuttosto attuale, visti gli ultimi aggiornamenti legislativi sul tema), forse vi sbagliate! L’acido carminico (E120) della cocciniglia, che dona appunto un vivace colore rosso carminio, viene estratto dai Coccus cacti, insetti simili ad afidi, parassiti dei cactus.

Altro rosso intenso è quello della barbabietola (Beta vulgaris), dovuto al pigmento betaina (E162), che riesce a colorare di porpora anche i nostri denti!

Un altro interessante pigmento – dal colore verde acceso - è la clorofilla (E140), ricavato dall’erba medica essiccata e macinata. Lo ritroviamo nella buccia delle mele e in tutti i frutti acerbi, nei piselli e in tutti gli ortaggi verdi.

Ma i pigmenti di gran lunga più diffusi e conosciuti sono le antocianine (E163), che possiamo ritrovare in una grandissima varietà di cibi, dai frutti di bosco, al cavolo rosso: essi colorano frutta, verdura, legumi e cereali (ma anche i fiori!) di rosa, rosso, viola e blu. A loro sono anche dovute le mille sfumature dei vini rossi.

Dunque, che aspettiamo? Godiamoci tutto l’arcobaleno dei cibi!

ELENA FERRERO

Fonte: "La biochimica degli alimenti" Tom P. Coultate, Ed. Zanichelli, 2005.

Le vitamine sono spesso associate nell'immaginario collettivo più a pillole e pasticche che ad alimenti. Checché ce ne dicano industrie e pubblicità, tuttavia, benché l’alimentazione umana sia variata molto dall'antichità ai giorni nostri, possiamo ancora ottenere tutto ciò di cui abbiamo bisogno per mantenere un buono stato di salute dal cibo tal quale, basta fare scelte oculate e consapevoli quando si tratta di fare la spesa. Per di più, anche il pensiero preventivo del “va beh, io ne prendo in abbondanza, mal che vada me le tengo per quando mi mancano”, non è sempre vero, anzi. Gli integratori sono comunque molto utili (e consigliati) in stati fisiologici particolari (come la gravidanza) o patologici (come in caso di malnutrizione, carenze specifiche, ecc).

Ma cosa sono le vitamine? Beh, non è facile definirle, in quanto sono un gruppo molto eterogeneo di sostanze, con una struttura organica generalmente complessa, ritrovate in diversi materiali biologici (non solo alimenti!). Le varie vitamine, insomma, dal punto di vista chimico non hanno nulla in comune ed è risultato piuttosto difficile per gli scienziati dell’epoca classificarle. Tuttavia, ci sono quattro aspetti che le riguardano tutte:

  • Sono costituenti essenziali di sistemi biochimici o fisiologici della vita animale (e spesso anche di quella vegetale e microbica!), dunque anche per l’uomo;
  • Gli animali hanno perso, in seguito all’evoluzione, la capacità di sintetizzarle in quantità adeguate, devono perciò essere assunte dall’esterno;
  • Le ritroviamo, solitamente, in quantità molto modeste (rispetto a sostanze come acqua, proteine, carboidrati, lipidi e fibre) nei materiali biologici;
  • La loro assenza nell’organismo determina delle sindromi specifiche, sintomo della loro carenza.

Già nell’antichità si sapeva che molte delle nostre malattie derivano da carenze alimentari. Pensate che nel papiro di Eber, risalente al 1150 a.C., si ritrovava già una precisa descrizione dello scorbuto - patologia causata dalla carenza di vitamina C - che già si associava alla dieta povera dei marinai, costretti a consumare solo alimenti conservati, trasportabili sulle navi durante i loro lunghi viaggi. Essi manifestavano emorragie gengivali, apatia, irritabilità, perdita di peso, dolori muscolari e articolari: le vecchie ferite cedevano e le nuove stentavano a guarire. Ma già Ippocrate, nel 420 a.C., ne era a conoscenza. Solo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX, tuttavia, tale misteriosa malattia è stata sconfitta, scoprendo che bastava del semplice succo di limone a far regredire la sintomatologia. Allo stesso modo, fin dal 2600 a.C., gli erbari cinesi descrivevano il beriberi, la patologia causata dalla carenza di vitamina B1.

Malgrado fosse stato notato fin da subito il legame con il regime alimentare, solo a partire dal XX secolo si inizia ad accettare l’idea che queste (e altre) malattie potessero essere causate dall’assenza di qualcosa di essenziale, più che dalla presenza di qualcosa di dannoso. Ad esempio, la pellagra – malattia causata dalla carenza di vitamina B3 – veniva collegata al consumo di mais avariato e non alla mancanza di tale vitamina nel cereale, protagonista delle diete poverissime del tempo.

Alla scoperta della vitamina B1 si riconduce il primo rudimentale modello sperimentale animale sull’argomento. Nel 1886 giunge in Indonesia il Dottor Christian Eijkman, per indagare che cosa provoca la malattia nota come beriberi, nome che in malese significa "pecora" (poiché i poveri affetti dalla patologia, in seguito a ptosi del piede, camminano senza appoggiare le dita del piede e il tallone, tenendoli sollevati da terra e sollevando la gamba più del normale, al pari di alcuni animali).

Mentre è alla ricerca dell’agente batterico che si riteneva esserne la causa, egli nota una somiglianza della malattia con una sindrome di paralisi che si manifestava nei polli. Nessuno fa alcun collegamento con l’alimentazione degli animali, finché la sindrome improvvisamente scompare in concomitanza con un cambiamento della dieta dei pennuti: dal riso sbramato a quello integrale. Eijkman intuì e in seguito confermò la relazione fra la dieta e la patologia, osservando che l’incidenza del beriberi nei prigionieri giavanesi a cui venivano date razioni di riso sbramato era del 2,8%, mentre quasi si annullava (0,09%) in quelli nutriti con il riso integrale. Qual era il misterioso fattore che determinava le diverse proprietà dei differenti tipi di riso? Senz’altro si trattava di una sostanza chimica, intuì, poiché gli estratti chimici o acquosi della crusca di riso davano lo stesso risultato. Circa 25 anni dopo, il dottor Casmir Funk si avvicinò all’isolamento del “fattore anti-beriberi” dalla crusca di riso. Fu proprio Funk che, sospettando che tale fattore potesse essere dal punto di vista chimico un’ammina, inventò la parola vitamine, dall’unione dei termini vital e amine (ammina vitale). Quando, in termini decisamente più recenti, fu chiaro che le altre sostanze di questo genere non erano affatto ammine, si rimosse la “e” finale dal termine inglese, che rimase vitamin.

Man mano che la scienza proseguiva, anche i metodi di ricerca si raffinavano. Studi dei primi del Novecento su ratti nutriti con razioni purificate di proteine, grasso, amido e minerali suggerirono la necessità di “fattori di crescita”, che nelle loro diete volutamente mancavano. McCullom e Davis ipotizzarono l’esistenza di due di questi, uno da loro chiamato “fattore liposolubile A” (che doveva trovarsi nel grasso del latte e nel tuorlo d’uovo) che sembrava prevenire la cecità notturna, e l’altro denominato “fattore idrosolubile B” (che invece si ritrovava in frumento, latte e tuorlo d’uovo). Negli anni ’20 si inizio a impiegare il termine “vitamina C” per indicare un fattore idrosolubile sconosciuto che si ritrovava in frutta e verdura e che sembrava prevenire lo scorbuto. Nello stesso periodo viene isolato un altro fattore solubile nei grassi, ma diverso dalla vitamina A, coinvolto nella prevenzione del rachitismo: si coniò così il termine “vitamina D”. Col passare del tempo si capì che il “fattore idrosolubile B” era composto da un insieme di diverse vitamine (oggi si parla di complesso vitaminico B), di natura chimica anche diversa.

Certo il percorso che portò all’identificazione di tutte le vitamine oggi conosciute fu lungo e complesso. Si pensi che per isolare la vitamina B5 furono necessari ben 250kg di fegato di pecora! È grazie a queste valorose pecore, che oggi… ehm, torniamo seri. È grazie al complesso lavoro e alla determinazione nel perseguire la scienza di studiosi e studiose che oggi conosciamo la preziosa importanza delle vitamine nella nostra alimentazione.

ELENA FERRERO

Fonte: "La biochimica degli alimenti" Tom P. Coultate, Ed. Zannichelli, 2005.

Oggi parliamo di MOCA. Non pensate però che si tratti di un articolo sulla famosa caffettiera inventata da Alfonso Bialetti nel 1933, qui si parla di sicurezza alimentare e più nello specifico di quei materiali che tutti i giorni entrano in contatto con gli alimenti che portiamo in tavola. Ma partiamo dal principio.

Sono definiti MOCA quei materiali e oggetti destinati a venire a contatto con gli alimenti (utensili da cucina e da tavola recipienti e contenitori, macchinari per la trasformazione degli alimenti, materiali da imballaggio etc.). Nella società moderna rivestono sempre maggiore importanza proprio gli imballaggi, che sono diventati un elemento essenziale del prodotto in quanto oltre all’aspetto funzionale (protezione da agenti esterni) assumono valenza informativa e pubblicitaria. Lo stesso imballaggio può però alterare il prodotto, ad esempio mediante cessione di sostanze pericolose per la salute. Essendo parte integrante della filiera di produzione agroalimentare i MOCA sono oggetto di un complesso quadro normativo che vede oggi i seguenti principali dispositivi di legge:

• Regolamento (CE) n. 1935/2004 (norma quadro) stabilisce i requisiti generali cui devono rispondere tutti i materiali ed oggetti in questione, mentre misure specifiche contengono disposizioni dettagliate per i singoli materiali (materie plastiche, ceramiche etc). Laddove non esistano leggi UE specifiche, gli Stati membri possono stabilire misure nazionali. In particolare il regolamento stabilisce che tutti i materiali ed oggetti devono essere prodotti conformemente alle buone pratiche di fabbricazione e, in condizioni d’impiego normale o prevedibile, non devono trasferire agli alimenti componenti in quantità tale da:

- costituire un pericolo per la salute umana
- comportare una modifica inaccettabile dei prodotti alimentari
- comportare un deterioramento delle caratteristiche organolettiche.

Figura 1 – Simbolo riprodotto nell’Allegato II del Reg.1935/2004 (rappresenta un bicchiere e una forchetta stilizzati).

• Regolamento (CE) n. 2023/2006 sulle buone pratiche di fabbricazione dei materiali e degli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari. Il regolamento stabilisce che tutti i materiali e oggetti elencati nell’allegato I del Regolamento n. 1935/2004 e le loro combinazioni, nonché i materiali e oggetti riciclati vanno fabbricati nel rispetto delle norme generali e specifiche sulle buone pratiche di fabbricazione, definite in lingua inglese come Good Manufacturing Pratices (GMP).

• il Regolamento (CE) n. 450/2009 (diffuso con nota ministeriale del 10 luglio 2009) stabilisce i requisiti per l’immissione sul mercato dei materiali e degli oggetti attivi ed intelligenti destinati a venire a contatto con gli alimenti.

• il Regolamento (UE) n. 10/2011 (detto anche "Regolamento PIM” Plastic Implementation Measure), direttamente applicabile in tutti gli Stati dell’Unione europea a partire dal 1° maggio 2011 e diffuso con nota ministeriale 12 maggio 2011, definisce norme specifiche per i materiali e gli oggetti di materia plastica destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari, inglobando le disposizioni comunitarie nel settore. Questo regolamento è stato successivamente modificato e corretto dal Regolamento (UE) n. 1282/2011 (diffuso con nota ministeriale n. 2484 del 30 gennaio 2012), dal Regolamento (UE) n. 1183/2012, dal Regolamento (UE) n. 202/2014 e dal Regolamento (UE) n. 174/2015.

• D. Lgs. 25 gennaio 1992, n. 108 riguardante l’attuazione della Direttiva 89/109/ CEE concernente i materiali e gli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari, che ribadisce la podestà del Ministro della salute, sentito il Consiglio Superiore di Sanità, di regolamentare i materiali e gli oggetti idonei a venire in contatto con gli alimenti.

Vediamo quali sono i principali materiali utilizzati oggi e le loro caratteristiche:

MATERIALE

CARATTERISTICHE

PERICOLI

VETRO

I principali fattori del suo successo sono l'impermeabilità, l’inerzia chimica, le garanzie igieniche, nonché la grande versatilità e la totale riciclabilità (100%).

Per quanto concerne la sicurezza dell’alimento il vetro è costituito da componenti naturali, quali silice e ossidi di sodio e calcio, che non hanno effetti negativi sulla salute; tuttavia, le sostanze di preoccupazione, come piombo e cadmio, si possono originare dalle vernici e dagli inchiostri di stampa.

CARTA e CARTONE

Gli imballaggi cellulosici (carta e cartone) presentano bassi costi di produzione, possibilità di riciclaggio, leggerezza e flessibilità. I punti deboli sono, invece, la permeabilità ai gas, la scarsa resistenza all’umidità e la debolezza meccanica.

Gli imballaggi cellulosici, come il vetro, sono composti di materiale proveniente da fonti naturali. Tuttavia, gli additivi aggiunti, come agenti sbiancanti o di collaggio, o i polimeri e le cere utilizzati per il rivestimento possono migrare verso il prodotto alimentare e contaminarlo.

METALLI

Nel settore degli imballaggi alimentari rappresentano circa il 5% degli imballaggi utilizzati e trovano largo impiego nelle conserve vegetali, ittiche e di carne. I prodotti comunemente impiegati sono la banda stagnata o “latta” (acciaio rivestito da uno strato di stagno), la banda cromata (acciaio rivestito da uno strato di cromo) e l’alluminio: i prodotti dal supporto in acciaio sono utilizzati soprattutto per l’imballaggio leggero (tappi corona, capsule e coperchi), mentre l’alluminio è utilizzato prevalentemente come scatolame o barattolame (bibite, carni, birra, latte, ecc.) e in fogli o tubetti rigidi e flessibili.

La maggior parte delle lattine è internamente ricoperta con uno strato polimerico (di solito resine fenoliche) e, di conseguenza, lo strato a contatto con l’alimento non è il metallo ma la plastica. Dunque le sostanze di preoccupazione non sono solo i metalli (stagno, cromo, piombo), ma anche le sostanze migranti dallo strato delle lattine, quali additivi, monomeri e altri componenti non classificati.

PLASTICHE

In campo alimentare l’utilizzo delle materie plastiche è relativamente recente rispetto agli altri materiali, ma in continua crescita grazie alle buone proprietà (durezza, resistenza all’urto, bassa conducibilità termica, resistenza ad acidi e basi, ecc.), ad un basso costo di produzione e trasporto, ad una grande versatilità di impiego e alle nuove tendenze di acquisto e consumo (ad esempio il porzionato fresco, i piatti pronti e i prodotti ortofrutticoli di quarta gamma).

I polimeri plastici hanno un alto peso molecolare (5000-1milione D) e dunque la loro disponibilità biologica è trascurabile. Tuttavia, a causa dell’uso di additivi a basso peso molecolare (<1000D) c’è una possibilità di esposizione a questi componenti. In generale le sostanze che possono migrare dai materiali plastici all’alimento sono i monomeri e le sostanze d’avviamento, i catalizzatori, i solventi e gli additivi.

La Migrazione

Con questo termine si intende la capacità dell’imballaggio di cedere sostanze chimiche all’alimento. Il rischio di cessione di sostanze è controllato da test di migrazione globale. Questa prova serve a verificare se, e in quale quantità, vengano cedute sostanze dall’imballaggio, senza identificare in modo specifico il componente ceduto. Esistono limiti massimi di legge oltre ai quali viene negata l’idoneità al contatto con l’alimento.La migrazione avviene se il prodotto alimentare ha capacità estrattive, ossia se per sua natura l’alimento si combina facilmente con i materiali di cui è com- posto l’imballaggio. Ad esempio, un biscotto secco e senza grassi in superficie non ha possibilità di “entrare in contatto diretto” con l’imballaggio, per cui non si creano le condizioni per il passaggio di sostanze. Un olio, invece, presenta una maggiore affinità con le materie plastiche perché i principali polimeri nei loro componenti sono lipofili, cioè si combinano chimicamente con le sostanze grasse e quindi si sciolgono nell’alimento.

 

Bruno Abbruzzese

 

Bibliografia:

  1. ONB, Quaderno tecnico 3. Materiali e oggetti destinati a venire a contatto con i prodottialimentari. A.I.B.A. Editore, Roma, 2014
  2. Ministero della salute. www.salute.gov.it
  3. E. Garbuto “Contaminanti Alimentari: sostanze migranti dagli imballaggi”- Universitàdegli Studi di Padova. 2009
  4. “Confezioni e imballaggi? Vai sul sicuro.” Laboratorio Chimico della Camera diCommercio di Torino. 2009

Il controllo dei corpi estranei da parte delle aziende alimentari sta divenendo processo sempre più importante, a fronte sia delle richieste sempre più stringenti da parte della GDO, sia per garantire un prodotto sempre salubre e sicuro.

Il controllo dei corpi estranei può essere condotto, ad esempio, mediante apposito strumento, denominato metal detector (ne esistono altri, ma che non saranno oggetto della presente trattazione).

La presenza del metal detector (MD), però, non basta da sola a garantire l'ottenimento di prodotti non contaminati da corpi estranei metallici.
Infatti esistono diversi fattori che concorrono ad un efficiente funzionamento del MD, di seguito elencati:

1) Adeguatezza

La scelta del MD dovrebbe basarsi sulla sua adeguatezza/idoneità a quel dato ambiente. Ad esempio, se l'area dello stabilimento ha livelli elevati di igiene e viene sottoposta a frequenti processi di pulizia, il sistema deve essere in grado di sopportare le procedure di lavaggio previste.

2) Posizionamento

Il posizionamento e la progettazione del MD dovrebbero essere determinati eseguendo un'analisi/valutazione del rischio. Ovvero mediante revisione dei processi produttivi e la valutazione del rischio derivante da contaminanti metallici in ogni fase.

Esistono tre possibili applicazioni di MD a seconda dei casi:
a) Conveyor based system (nastro di trasporto): per prodotti confezionati e discreti, in cui il MD fornisce un ultimo controllo prima che il prodotto lasci lo stabilimento.
b) Pipeline system (conduttura): per liquidi, salse e prodotti pompati che, quando confezionati, sono difficili da ispezionare per tutte le tipologie di contaminanti metallici.
c) gravity-free fall system (sistema a caduta): per cereali e altri prodotti in polvere che non possono essere facilmente controllati quando confezionati.

3) Sensibilità

La seguente tabella fornisce una linea-guida riguardo la sensibilità del MD in base alla dimensione della sua apertura. La sensibilità del MD può essere altresì influenzata dai seguenti fattori:
- prodotto, materiale di confezionamento, ambiente produttivo, tipo di presentazione del prodotto.

Altezza apertura

PRODOTTI SECCHI

PRODOTTI UMIDI e CONFEZIONI METALLICHE

Fer

Non Fer

Inox

Fer

Non Fer

Inox

Altezza di 50 mm

0.8-1.0
mm

0.8-1.0
mm

1.2-1.5
mm

1.5 mm

2.0 mm

2.5 mm

Altezza di 125 mm

1.0-1.5
mm

1.2-1.5
mm

1.2-1.5
mm

2.0 mm

2.5 mm

3.5 mm

Altezza di 200 mm

1.2-2.0
mm

1.5-2.0
mm

2.0-2.5
mm

2.5 mm

3.0 mm

4.0 mm


In caso di prodotto umido e confezionato in pellicola metallica, il rilevatore dovrebbe essere impostato al miglior livello di sensibilità che si può ottenere senza causare un numero elevato di falsi positivi.
E' raccomandabile richiedere informazioni riguardo le perfomance del MD al produttore dello stesso. Se del caso, l'azienda può richiedere un campione del prodotto prima di accettare una data specifica di sensibilità, quindi procedere ad impostare sullo strumento la sensibilità che ritiene più adeguata.

Leonardo Francesco de Ruvo

 

 

1

Il processo produttivo del pane può presentare molteplici varianti, dipendenti da fattori tecnologici e umani.

Una classificazione può essere operata sulla base della modalità di impastamento:

1) diretta: definita in inglese “Straight Dough” perché si realizza direttamente l’impasto miscelando tutti gli ingredienti insieme;

2) indiretta: definita in inglese “Sponge and dough” perché si impasta in due o tre tempi, preparando un pre-impasto (“sponge”) e poi aggiungendo a questo gli altri ingredienti.

Nel metodo diretto si impastano tutti gli ingredienti in una volta sola.

Seguono le normali fasi del processo produttivo (vedi figura) e, in particolare, la lievitazione è molto breve, per cui si tratta di una panificazione veloce, che porta però all’ottenimento di un prodotto dall’aroma limitato e dal veloce raffermamento.

Il metodo indiretto prevede invece impastamenti a più riprese.
Uno dei metodi più diffusi è quello del lievito naturale.

Il lievito naturale, o lievito madre, è una porzione di impasto della lavorazione precedente (contiene batteri lattici e lieviti) che viene addizionato di altra farina e acqua (rinfresco) e lasciato lievitare per alcune ore.
Il processo si ripete per circa tre rinfreschi, solitamente effettuati ogni 8 ore.

Ma per quale motivo?
Nel lievito naturale è possibile osservare un'evoluzione caratteristica del microbiota.
Onno e Roussel (1994) hanno riportato che, dopo 8 ore di fermentazione del lievito naturale, è raggiunto un valore costante di pH (circa 4,0) e la fase stazionaria di crescita di lieviti e batteri lattici.
In questo lasso di tempo la popolazione dei lieviti passa da 2 x 106 a 3,6 x 107 UFC/g, mentre i batteri lattici passano da 1 x 108 a 1 x 109 UFC/g.
Tali dati, raccolti dagli studiosi, suffragano la pratica consolidata nel tempo di eseguire rinfreschi ogni 8 ore, al fine di propagare il lievito naturale.

Ad oggi non esiste una definizione normativa per il lievito naturale.
Se ne parla solo in un decreto francese, numero 1074-1993:
« Décret n°93-1074 du 13 septembre 1993 pris pour l'application de la loi du 1er août 1905 en ce qui concerne certaines catégories de pains «
Da qui l’ampia confusione e utilizzo improprio del termine.

Bibliografia:
"Biotecnologie dei prodotti lievitati da forno", M. Gobbetti, A. Corsetti, Casa Editrice Ambrosiana;
"Technologie et microbiologie de la panification au levain", Onno B., Roussel P., Bacteriés lactiques, volume 11, Capo V-5, France, 1994.

Leonardo Francesco de Ruvo

1 Le micotossine e funghi produttori

 

Le micotossine sono metaboliti secondari, tossici per gli animali superiori, prodotti da funghi.

Solitamente il termine micotossina viene riservato a quei prodotti chimici tossici e termostabili, prodotti da talune specie di funghi che colonizzano i raccolti vegetali in campo e i prodotti alimentari in magazzino, in post-raccolta.

I principali prodotti agro-alimentari interessati da questa contaminazione sono i cereali in genere, la frutta secca, il caffè, il cacao, le spezie, i semi oleaginosi, i piselli, i fagioli secchi, i succhi di frutta (specialmente di mela).

Ad oggi sono state riconosciute circa 300 micotossine, con funghi produttori che appartengono principalmente a 3 specie: Aspergillus, Penicillium e Fusarium.

 

Tab. 1.1 Principali micotossine, muffe e prodotti oggetto di contaminazione
Micotossina Muffa Prodotti contaminati
Aflatossina B1 B2 G1 G2 Aspergillus flavus, A. Parasiticus, A. Nomius Arachidi, legumi, mais, altri cereali, noci e mandorle, semi oleosi, frutta secca, latte di bufala
Aflatossina M1 e M2 Metabolismo B1 B2 latte di vacca
Zearalenoni: zearalenone, zearalenolo Fusarium graminearum, F. culmorum Mais e altri cereali
Ocratossina A e B Aspergillus Ochraceus, Penicillium verrucosum e altre specie di Penicillium e Aspergillus Orzo, mais, frumento e latri cereali, pane, paste e altri prodotti da forno,
Tricoteceni:

- Tossina T-2

- Deossinivalenolo

- Fusarenone

- Nivalenolo

- Tricotecine

- Fumonisine

 

 

- F. sporotrichioides

- F. graminearum e culmorum

- F. graminearum e culmorum

- Trichothecium roseum

- Stachibotris atra

- Fusarium spp.

 

- Mais e altri cereali

- Frumento e altri cereali

- Frumento e altri cereali

- Frutta e derivati

- Frutta e derivati

- Mais e altri cereali

Patulina Penicillium expansum e altri Penicillium e Aspergillus Futta e derivati

 

Nella produzione di tossine molti sono i fattori che concorrono, siano essi estrinseci o intrinseci.

I fattori intrinseci sono:

1) il potenziale tossingeno del dato ceppo che può variare nell'ampio intervallo da 1 a 104;

2) il livello di contaminazione iniziale.

Diversamente i fattori estrinseci sono correlati alle condizioni ecologiche:

1) fattori chimici, chimico-fisici e fisici, quindi umidità e acqua libera, T, tempo, substrato favorevole, rapporto CO2/O2.

2) fattori biologici: parassiti, competizione tra ceppi fungini, flora di competizione, stress della pianta, resistenza del substrato genetica e fisica.

 

Tab. 1.2 Alcuni valori di acqua libera in cui preferibilmente si verifica la crescita fungina
Muffa Aw crescita fungo Aw produzione tossina
Aspergillus Flavus 0,78 0,84
Aspergillus parasiticus 0,80 - 0,82 0,83 - 0,87
Aspergillus Ochraceus 0,77 - 0,83 0,83 - 0,87

 

Tab. 1.3 Intervallo di temperatura di sviluppo delle tossine
Muffa (tossina) Temperatura (°C)
Aspergillus (aflatossine, ocratossina) da 24 a 37 °C
Penicillium (ocratossina) da 20 a 32 °C
Fusarium (Zearalenone, Deossinivalenolo) da 15 a 27 °C
 

2 Azioni preventive da attuare in sede di autocontrollo

 

Una caratteristica rilevante delle micotossine è la loro stabilità durante le fasi di stoccaggio e termoresistenza ai trattamenti termici impiegati dall'industria alimentare.

Risulta quindi di fondamentale importanza l'attività di prevenzione, ovvero tutte quelle azioni che vengono intraprese per evitare o limitare lo sviluppo fungino e la successiva produzione di tossine.

Alcune azioni che possono essere intraprese a scopo preventivo sono:

1) GAP, buone pratiche agricole e corretto impiego di anticrittogamici, all'uopo di limitare la crescita dei funghi in campo;

2) quando possibile cernita preliminare dei frutti, eliminando quelli muffiti o che presentano ferite , quindi più predisposti al fenomeno del nesting (particolarmente importante nel caso di produzione di succhi di frutta, dato che i frutti muffiti contengono maggior quantitativi di patulina);

3) lavaggio dei frutti ad alta pressione prima della macinazione, eliminando così le zone muffite e riduzione dei livelli di spore di Penicillium expansum e patulina.

4) controllo dell'umidità di stoccaggio del prodotto. Per il frumento viene considerato sicuro un valore di umidità attorno al 14,5% sul peso;

5) riduzione dei tempi di magazzinaggio delle materie prime, qualora risultasse difficoltoso il controllo dell'umidità della fornitura (parametro rilevante per le piccole realtà che realizzano prodotti da forno, spesso dotate di silos per lo stoccaggio di ridotte dimensioni);

6) definizione di capitolati di fornitura e procedure di accettazione e respingimento del prodotto.

 

 

 

Leonardo Francesco de Ruvo

Fino allo scorso 16 settembre, per poter esportare merce destinata all’alimentazione umana negli Stati Uniti d’America, bastava collegarsi al sito FDA (Food and drug administration) americano (www.fda.gov), registrare la propria azienda ed i propri importatori sul database dello stesso sito governativo e proseguire alla compilazione della fatidica Prior Notice. Dopo qualche ostacolo non risultava poi così difficile riempire questa pseudo packing list pre-spedizione e ottenere la documentazione per la spedizione della merce in America.

Tutto questo sistema resta  invariato, con la speranza che la nuova amministrazione Trump e la relativa squadra non pongano limiti ulteriori, cambiano però i requisiti di base.

Infatti, dallo scorso 16 Settembre, le aziende del settore alimentare che intendano esportare in USA sono tenute, come le stesse aziende importatrici americane, ad  adeguarsi alla nuova regolamentazione a cui è stato dato il nome di FSMA (Food Safety Modernization Act) azione di  ammodernamento della sicurezza alimentare. (Legge dal 4 Gennaio 2011)

Non sono soggette a cambiamenti le aziende già soggette a U.S. FDA Food Canning Establishment (FCE) Registration and Process Filings (SID) registrazioni per prodotti che vanno richieste prima dell’esportazione e per le quali è doveroso rispondere a delle check list molto specifiche.

Le date per le quali bisogna mettersi in regola variano a seconda delle dimensioni delle aziende:

  • Requisito generale FSMA: entro il 26 Settembre 2016.
  • Aziende alimentari con meno di 500 addetti: entro il 30 Settembre 2017;
  • Produttori alimentari con meno di 1 milione di Dollari di vendite annue entro il 30 Settembre 2018.

È comunque consigliabile, per una serie di dubbi che potrebbero insorgere a chi effettua i controlli, mettersi in regola in tempo per la prima esportazione per gli USA dopo l’entrata in vigore di queste leggi. Inoltre va detto che l’ente, l’azienda, la compagnia importatrice è a tutti gli effetti responsabile di ciò che gli USA importeranno in dogana, per cui molti importatori si stanno attivando per effettuare audit privati presso i fornitori esteri per essere sicuri di promuovere il nuovo regolamento e non imbattere in sanzioni e blocco dei permessi di importazione.

Ciò che succede in pratica è che le aziende esportatrici dovranno adeguare i manuali HACCP aziendali alle nuove procedure di prevenzione emanate dall’FDA e definite dall’ente ad esso collegato: l’FSPCA (Food Safety Prentive Control Allianc). Tale adeguamento dell’HACCP in H.A.R.P.C (Hazard Analysis and Risk-Based Preventive Controls) però, non potrà essere a cura di un consulente qualsiasi, ma di una persona riconosciuta idonea dallo stesso FSPCA.

I consulenti aziendali che si occupano, quindi, di HACCP, sicurezza alimentare, certificazioni estere, possono inviare all’FDA un curriculum vitae in inglese e aspettare che gli venga concessa l’idoneità. Se ciò avvenisse, l’operatore sarebbe inserito in un database governativo come consulente idoneo.  Se così non fosse, l’FSPCA da la  possibilità di effettuare corsi di formazione  nel proprio paese d’origine.  La Food Safety Prentive Control Alliance ha infatti stabilito forme di collaborazione con Enti di controllo europei che potranno effettuare corsi privati per la “produzione” della figura professionale di  PCQI: Preventive Control Qualified Individual il quale avrà la responsabilità di redigere ed attuare il Food Safety Plan aziendale secondo la normativa FDA. Al termine del corso si ottiene, pertanto,  dal  lead instructor qualificato FSPCA un certificato grazie al quale il consulente sarà iscritto al già citato database di Preventive Control Qualified Individuals.

In  conclusione si può ancora dire che se l’azienda esportatrice è un’azienda ben organizzata e ben gestita, non è poi così drammatico mettersi in regola e effettuare l’evoluzione dell’HACCP in HARPC, si tratta,  di implementare qualche procedura di gestione del rischio, di ampliare le vedute se l’azienda ne abbia bisogno e di integrare i documenti anche con copie in lingua inglese.

Attendere l’audit dell’importatore o del controllo governativo americano pertanto continuare a lavorare nel rispetto delle leggi europee che non sono meno esigenti di quelle americane.

Per cui, come in tutti i cambiamenti sarà un ottimo spunto per migliorare la comunicazione e lo scambio in altre latitudini e fare del commercio e dell’esportazione alimentare un porto sicuro.

CLAUDIA BUONOFIGLIO

1 - I BATTERI COMUNICANO TRA DI LORO.

Non si può dire che parlino o cantino, così come accade all’uomo o come fanno (in modo più elementare) delfini e balene, ma certo si scambiano informazioni rilasciando nell’ambiente una serie di messaggi che i loro consimili percepiscono. Per esempio, i batteri periodicamente fanno il censimento della popolazione e tastano il terreno, ossia verificano praticamente in tempo reale le condizioni dell’ambiente che li circonda, sia esso l’ambiente esterno o l’interno di un essere animato come una pianta, un animale o l’uomo stesso. In questo contesto i batteri producono e rilasciano nell’ambiente circostante alcuni composti chimici specifici che fungono da trasmettitori del messaggio; altri batteri li captano, li interpretano e rispondono producendo a loro volta dei messaggi, diciamo così, odorosi. Nella società dei corrono costantemente dei segnali chimici, molecole di piccole dimensioni simili agli anticorpi e chiamati autoinduttori. Queste molecole si accumulano al di fuori delle singole cellule microbiche, ma finché la carica microbica è bassa e diluita nell’ambiente esterno non succede nulla. Quando però la stessa popolazione si accresce e supera un certo livello (un quorum, visto come numero legale per una votazione) le molecole che si sono accumulate possono innescare una serie di eventi che si succedono per lo più con effetto “a cascata” determinando qualche reazione o qualche effetto. Questo sistema di comunicazione è chiamato, appunto, quorum sensing.

2 - MIELE E BOTULISMO INFANTILE

È ormai diffusa tra le mamme e tra i pediatri la precauzione di evitare il consumo del miele in bambini fino al raggiungimento di un anno di età, per prevenire il botulismo infantile. Il botulismo infantile, contrariamente a quello alimentare, non è un’intossicazione, in quanto la tossina viene prodotta in particolarissime e rarissime circostanze nell’intestino del neonato e quindi viene assorbita provocando l’insorgenza della malattia. La fonte del botulismo infantile quindi non è la tossina ma le spore, che si trovano naturalmente nell’ambiente e nella polvere e che possono venire a contatto anche con il neonato. La loro germinazione, moltiplicazione e conseguente produzione di tossina nell’intestino sembrerebbe possibile solo grazie ad un dismicrobismo intestinale (alterazione del numero totale dei microrganismi costituenti la flora microbica intestinale e del rapporto tra le varie specie naturalmente presenti nell’intestino) che ridurrebbe il normale effetto antagonista della popolazione intestinale autoctona nei confronti dei clostridi produttori di tossine botuliniche.

3 - LARVE DI TRICHINELLA SPIRALIS E COTTURA A MICROONDE

L’efficacia della cottura a microonde nella distruzione delle larve di T. spiralis è stata studiata da diversi gruppi di ricerca. In uno studio orientato alla produzione domestica – nel quale la maggior parte degli arrosti di maiale infestati da trichine veniva cotto in forni a microonde in base al tempo piu che alla temperatura, Zimmerman e Beach hanno trovato che su 51 prodotti (48 arrosti e 3 braciole di maiale) cotti in 6 forni diversi 9 rimanevano infettivi; di questi, 6 non avevano raggiunto la temperatura di 76,7 °C e 3 l’avevano superata in qualche punto del ciclo di cottura. I ricercatori hanno sottolineato che la carne di maiale infestata sperimentalmente utilizzata nello studio proveniva da maiali infettati con 250.000 T. spiralis, che avevano prodotto circa 1000 trichine per grammo di tessuto rispetto a circa 1 trichina per grammo che normalmente si trova nei maiali infettati naturalmente. La cottura della carne di maiale in forni a microonde costituisce evidentemente un motivo di preoccupazione in relazione alla distruzione delle larve di trichinella.

4 - ENTOMOFAGIA: ASPETTI NUTRIZIONALI

Sebbene finora pochi studi abbiano analizzato le caratteristiche nutrizionali degli insetti e il loro metabolismo negli esseri umani (AA.VV., 2013), è generalmente riconosciuto che essi siano una fonte di cibo nutriente. In generale, gli insetti forniscono energia, proteine, amminoacidi e acidi grassi essenziali benefici per la salute umana, mentre il contenuto di grassi può variare ampiamente tra 7 e 77g per 100 g di peso secco (Belluco et al., 2013). Infine, anche il contenuto di fibre e micronutrienti (vitamine e minerali) è molto elevato (Halloran et al., 2015). Come per molti altri animali, i valori nutrizionali possono variare significativamente da specie a specie, dallo stadio di vita e dal substrato con cui vengono alimentati.

5 - ESISTE UNA “DOSE TOLLERABILE” DI ACRILAMMIDE?

L’acrilammide e la glicidammide, suo metabolita, sono genotossiche e cancerogene. Dal momento che qualsiasi livello di esposizione a una sostanza genotossica potenzialmente ha la capacità di danneggiare il DNA e far insorgere il cancro, gli scienziati dell'EFSA hanno concluso di non poter stabilire una dose giornaliera tollerabile (DGT) di acrilammide negli alimenti. In luogo di ciò gli esperti dell'EFSA hanno stimato l’intervallo di dosaggio entro il quale è probabile che l’acrilammide causi una lieve ma misurabile incidenza di tumori ("effetti neoplastici") o di altri potenziali effetti avversi (neurologici, sullo sviluppo pre e postnatale e sul sistema riproduttivo maschile). Il limite inferiore di questo intervallo viene detto limite inferiore dell’intervallo di confidenza relativo alla dose di riferimento (BMDL10). Per i tumori gli esperti hanno scelto un BMDL10 di 0,17mg/kg pc/giorno. Per altri effetti, i mutamenti neurologici più pertinenti al caso sono stati osservati con un BMDL10 di 0,43 mg/kg pc/giorno. Confrontando il BMDL10 all’esposizione umana all’acrilammide, gli scienziati sono in grado di indicare un “livello di allarme per la salute” noto come “margine di esposizione”.

6 - MORTALITÀ DA LISTERIOSI

La listeriosi umana presenta  tassi di mortalità che possono arrivare fino al 30-40% dei soggetti colpiti, valore che supera quello di altri agenti di malattia alimentare come Salmonella spp. e che si avvicina a quelli di Clostridium botulinum (i cui tassi di mortalità possono andare dal 20-30% fino al 70-80% delle persone colpite). A differenza del botulismo, però, la listeriosi è una malattia alimentare piuttosto frequente: si stima che la sua incidenza tra la popolazione sia di circa 0,7-1 caso/100.000 abitanti se si prendono in considerazione le persone in normali condizioni di salute (soggetti immunocompetenti). Tuttavia, la probabilità di contrarre l’infezione dagli alimenti è tre volte maggiore per le persone con più di 70 anni di età e sale a oltre 17 volte per le donne in gravidanza e i soggetti con compromissione delle difese immunitarie (Siegman-Igra et al., 2002).

7 - MAI LAVARE IL POLLO PRIMA DI CUCINARLO

La FSA ritiene infatti che quando il pollo crudo viene lavato, il Campylobacter, batterio solitamente presente nell’apparato gastroenterico del pollo, può diffondersi repentinamente attraverso gli schizzi d’acqua generati col lavaggio di pollame, oche, anatre e fagiani. La proliferazione del Campylobacter porta alla contrazione della  campylobatteriosi, una malattia che colpisce l’apparato digerente dell’uomo che si manifesta con specifici sintomi, quali diarrea, dolori addominali, vomito e nausea, e nei casi più gravi, mal di testa e febbre. Il batterio potrebbe essere tuttavia eliminato attraverso una cottura a puntino delle carni a patto però che il pollo passi dal frigo direttamente in padella o in forno. Altro passaggio da seguire con meticolosità è quello di lavare per bene il tagliere, i coltelli e altri eventuali utensili impiegati durante la preparazione.

8 - LE BATTERIOCINE NON SONO ANTIBIOTICI

Molti batteri, sia Gram positivi che Gram negativi possono produrre composti di natura proteica (vere proteine o piccoli peptidi) che manifestano attività antimicrobica. Questi composti sono stati chiamati batteriocine. Le batteriocine possono somigliare, come effetto, a un antibiotico, ma non sono da considerare veri antibiotici. Fra le prime e i secondi, infatti, vi sono alcune importanti differenze:

- le batteriocine sono efficaci contro ceppi di batteri che appartengono alla stessa specie che produce le batteriocine o al massimo contro ceppi di specie affini alla specie produttrice. Un antibiotico, invece, può essere efficace contro batteri di varie specie anche molto differenti l’una dall’altra;

- le batteriocine sono prodotte dai ribosomi dei batteri e la loro sintesi avviene nella fase di crescita primaria, mentre gli antibiotici sono di solito dei metaboliti secondari dei microrganismi;

- le batteriocine sono composti quasi sempre di piccolo peso molecolare e sono facilmente degradate da enzimi proteolitici, soprattutto quelle presenti nell’intestino dei mammiferi. Questo le rende praticamente innocue per uso alimentare umano, mentre altrettanto non può dirsi per gli antibiotici.

9 - QUANTA CAFFEINA CONSUMIAMO?

Le assunzioni quotidiane medie, pur variando a seconda degli Stati membri, sono comprese nelle seguenti fasce:

Molto anziani (75 anni e più): 22-417 mg

Anziani (65-75 anni): 23-362 mg

Adulti (18-65 anni): 37-319 mg

Adolescenti (10-18 anni): 0,4-1,4 mg/kg pc

Bambini (3-10 anni): 0,2-2,0 mg/kg pc

Bambini piccoli (12-36 mesi): 0-2,1 mg/kg pc

Nella maggior parte delle indagini i cui dati sono confluiti nella banca dati EFSA sui consumi di alimenti, la fonte predominante di caffeina per gli adulti era il caffè, rappresentando tra il 40% e il 94% dell’assunzione totale. In Irlanda e Regno Unito la fonte principale è risultata il tè, che rappresentava rispettivamente il 59% dell’assunzione totale di caffeina nel primo Paese e il 57% nel secondo. Ci sono grosse differenze tra i Paesi per quanto riguarda il contributo delle diverse fonti alimentari al totale della caffeina assunta dagli adolescenti. Il cioccolato è risultato essere la fonte numero uno in sei sondaggi, il caffè in quattro sondaggi, le bevande a base di cola in tre, e il tè in due. Nella maggior parte dei Paesi il cioccolato (che comprende anche le bevande a base di cacao) è stata la fonte principale di caffeina per i bambini dai 3 ai 10 anni, seguito da tè e bevande alla cola. Un motivo delle differenze nei livelli di consumo – a parte le abitudini culturali – è la concentrazione variabile di caffeina riscontrata in alcuni prodotti alimentari. Le concentrazioni nelle bevande a base di caffè dipendono dal processo produttivo, dalla varietà di chicchi di caffè usati e dalle modalità di preparazione (per es. caffè americano, espresso). I livelli riscontrati nelle bevande a base di cacao variano a seconda della quantità e del tipo di cacao usato dalle varie marche.

10 - SPECIFIC SPOILING MICRO-ORGANISM (SSO)

Gli SSO sono un gruppo molto eterogeneo di batteri, lieviti e muffe; se in un alimento trovano le condizioni idonee per moltiplicare a dismisura, gli SSO con i loro enzimi (endogeni e/o esogeni) possono degradare i componenti dell’alimento modificandone le caratteristiche in modo sgradevole ai nostri sensi, tanto da fare giudicare il prodotto come “alterato”, “deteriorato”, “in putrefazione”. In generale si ammette che un alimento qualunque cominci a manifestare modificazioni evidenti di uno o più caratteri sensoriali quando sulla sua superficie o al suo interno la carica microbica supera le 107-108 ufc/g o /cm2.

Bisogna, però, specificare subito un concetto: gli alimenti si deteriorano NON perché al loro interno la carica microbica cresce in modo omogeneo e disordinato; una parte dei microrganismi che formano la flora microbica, sotto l’effetto dei vari fattori del substrato non riesce a duplicare, mentre altri trovano nella matrice le adatte condizioni di pH, Aw, tensione parziale di ossigeno e temperatura che li favoriscono. Sono questi ultimi gruppi di microrganismi che prendono il sopravvento sugli altri e, moltiplicando a dismisura, fanno andare a male il prodotto. Ecco perché è corretto sostenere che le alterazioni microbiche degli alimenti sono provocate dall’eccessiva proliferazione di solo alcuni gruppi di microrganismi (a volte solo un tipo di batterio o di lievito o di muffa!). E questi microrganismi che, prendendo il sopravvento sugli altri, riescono a deteriorare il prodotto sono chiamati, appunto, “agenti specifici di putrefazione” (in inglese Specific Spoiling micro-Organism SSO).

 

Giovanni Romano

La strada dell’uomo verso la conquista della “sicurezza alimentare” è stata molto lunga e tempestata di episodi che hanno lasciato una scia di sofferenza e di morte. Cenni storici sulla sicurezza alimentare risalgono a 12-15.000 anni fa, quando l’uomo di Cro-Magnon morì vittima di un’intossicazione alimentare provocata da una malattia delle graminacee.

È difficile ipotizzare quanto tempo ci sia voluto affinché gli uomini riuscissero a individuare e quindi ad eliminare dai loro pasti l’erba incriminata o quante vittime ci siano state prima che l’uomo preistorico potesse differenziare i funghi commestibili da quelli velenosi.

Per soddisfare la propria fame, l’uomo ha dovuto correre continuamente rischi spesso anche mortali. Curioso è l’episodio capitato ai soldati greci che facevano parte della spedizione di Ciro il Giovane contro il fratello Artaserse, re di Persia, nel 401 a.C..

Conclusasi tragicamente la spedizione con la morte di Ciro, i Greci dovettero intraprendere una lunga e difficile marcia, dalla Babilonia al Ponto, e nell'ultima fase della marcia arrivarono, una sera, stanchi ed affamati a Trebisonda, sulla riva del mar Nero, ai piedi delle boscose montagne del Ponto, dove trovarono una grande quantità di miele su cui si gettarono affamati. Purtroppo, soprattutto coloro che ne avevano mangiato di più, andarono incontro a una forma di avvelenamento con sintomi a carico dell’apparato gastro-enterico, ma anche con vertigini, offuscamento della vista e fenomeni di incoscienza.

Oggi sappiamo che tale avvelenamento era legato al nettare fornito alle api da alcune specie di azalee, di rododendri, di oleandri e forse di allori montani che contengono un veleno, la graianotossina, responsabile dell’episodio.

La graianotossina (conosciuta in passato come andromedotossina, acetilandromedolo e rodotossina) causa appunto l'intossicazione da miele. Questa forma di intossicazione è molto rara.

Altri termini che definiscono questa malattia sono: avvelenamento da rododendro, intossicazione da miele pazzo o avvelenamento da graianotossine.

Altro episodio legato al miele viene ricordato durante la guerra di secessione americana, quando un gruppo di soldati lamentò manifestazioni molto gravi a carico del sistema nervoso a seguito dell’ingestione di miele prodotto da api che avevano bottinato su fiori di Datura. Nel miele si erano verosimilmente accumulati gli alcaloidi della Datura (scopolamina, atropina e iosciamina).

Attualmente, in Turchia, nonostante tali conoscenze siano diffuse da secoli, il "miele pazzo" ha ancora estimatori. La diffusa medicina tradizionale locale, infatti, lo prescrive come un buon rimedio per i dolori di stomaco, l'ipertensione e (sopratutto) le difficoltà sessuali.

Nel 2002, ad esempio, 19 soggetti (tra cui 12 uomini) dovettero essere ricoverati per aver ingerito tale alimento. Sottoposti ad esami clinici, tutti i pazienti (età compresa tra i 22 ai 16 anni) mostrarono i tipici sintomi: nausea, vomito, caduta della pressione arteriosa e bradicardia (riduzione del ritmo cardiaco).

Quello che una volta era un problema locale di alcune zone montuose della Turchia oggi si sta internazionalizzando. Gli osservatori medici riportano infatti già casi d'intossicazione in Svizzera, Austria e Germania.

Anthony Scorzelli 

Frutta e verdura ricoprono un pasto essenziale nella nostra dieta mediterranea, cruda o cotta, confezionata o sfusa il nostro paese è un gran produttore e consumatore di questi alimenti (la Puglia con circa 98.000 ha è il primo posto per superficie destinata a colture ortive, seguita dalla Sicilia e dall’Emilia Romagna).

Nonostante ci sia stato un decremento del consumo di ortofrutta dagli anni ’90 ad oggi calcolato per circa il -22% si è evoluti nelle tecniche di produzione e confezionamento degli stessi.

Capiamo le differenze di “gamme”

I gamma – ortaggi sfusi, nella loro preparazione tradizionale

II gamma – ortaggi in barattolo, conserve e semi conserve

III gamma - ortaggi surgelati

IV gamma – ortaggi preparati, lavati, freschi e confezionati

V gamma – ortaggi precotti, grigliati o scottati.

Origini

La comparsa dei prodotti di IV gamma si è presentata per la prima volta negli Stati Uniti durante gli anni ’60, gli anni ’80 rappresentarono un periodo di grande importanza assumendo caratteristiche di praticità d’uso e salubrità, chiamandoli “ready to eat”. In Europa il primo timido tentativo di introduzione di questa categoria di prodotti avvenne negli anni ’80 in Francia prendendo il nome di “GAMME”, poi nel Regno Unito “FRESCH CUT”, Germania, Svizzera ed Italia con denominazione “FRESCHI PRONTI AL CONSUMO”. La Lombardia è la regione a consumare in maggior misura prodotti di IV gamma per quantitativo  di aziende di trasformazione e stile di vita.

È la legge del 13 maggio 2011 n. 77 che ci da la corretta definizione di prodotti di IV gamma: si definiscono prodotti ortofrutticoli di quarta gamma i prodotti ortofrutticoli destinati all'alimentazione umana freschi, confezionati e pronti per il consumo che, dopo la raccolta, sono sottoposti a processi tecnologici di minima entità atti a valorizzarli seguendo le buone pratiche di lavorazione articolate nelle seguenti fasi: selezione, cernita, eventuale monda e taglio, lavaggio, asciugatura e confezionamento in buste o in vaschette sigillate, con eventuale utilizzo di atmosfera protettiva.

I prodotti ortofrutticoli di quarta gamma possono essere confezionati singolarmente o in miscela, in contenitori di peso e di dimensioni diversi. È consentita l'eventuale aggiunta, in quantità percentualmente limitata (40% in peso del prodotto finito), di ingredienti di origine vegetale non freschi o secchi.

I prodotti maggiormente acquistati sono le insalate circa 86% (monovarietali o plurivarietali), rucola, carote ecc… la destinazione principale della IV gamma è la GDO, mense scolastiche e ospedali.

I produttori oltre a rispettare le fasi di lavorazione del prodotto  devono garantire una temperatura degli ambienti di lavoro di 14°C e che la temperatura delle celle di conservazione delle materie prime, semi lavorati, prodotti finiti deve essere inferiore agli 8°C.

Informazioni specifiche da riportare sulla confezione:

Oltre le diciture obbligatorie in materia di etichettatura del Reg. CE 1169/2011, vediamo le indicazione specifiche (attuazione dell'articolo 4 della legge 13 maggio 2011, n. 77, Art.8):

  1. a) in un punto  evidente  dell'etichetta,  in  modo  da  essere facilmente visibili e chiaramente leggibili: "prodotto lavato e pronto per il consumo", o  "prodotto lavato e pronto da cuocere".  Il termine "prodotto" puo' essere sostituito da una descrizione piu' specifica dello stesso;
  2. b) le istruzioni per l'uso per i prodotti da cuocere;
  3. c) la  dicitura:  "conservare  in  frigorifero   a   temperatura inferiore agli 8°C";
  4. d) la dicitura: "consumare entro due giorni dall'apertura  della confezione e comunque non oltre la data di scadenza". Tale  dicitura non  si  applica  ai  prodotti  lavati  e  pronti  da  cuocere  nella confezione integra.

Requisiti igienici

Durante il processo di lavorazione i prodotti ortofrutticoli di quarta gamma devono essere sottoposti ad almeno due cicli di lavaggio.

In conformità a quanto stabilito dal Regolamento (CE) n. 2073/05 e dalla Determinazione della Conferenza Permanente Stato-Regioni del 10 maggio 2007, i seguenti criteri costituiscono requisiti igienici dei prodotti ortofrutticoli di quarta gamma

Requisiti sanitari

Nel rispetto del Regolamento (CE) n. 2073/2005, Allegato 1, i prodotti ortofrutticoli di quarta gamma pronti per il consumo, devono rispettare i seguenti requisiti sanitari:

Carmen Tarantino