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“Fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo” queste le illuminanti parole di Ippocrate che ben si sposano con il concetto di supercibo.
Il supercibo è rappresentato da tutti quegli alimenti che contengono principi attivi particolarmente interessanti per la salute. Dopo aver parlato a lungo di bacche anti-age, tea e caffè verde, Ginkgo biloba, et similia.., oggi l'interesse si è spostato sugli insetti edibili.
Perché mangiare insetti?
Il cambiamento climatico e la crescita della popolazione mondiale sono fenomeni innegabili pertanto all'uomo spetta cambiare le abitudini alimentari, questo perché le diete occidentali sono inefficienti ed energivore.
Il problema maggiore è la dipendenza globale dalla carne e il conseguente impatto negativo degli allevamenti sull'ambiente per consumo di acqua, territorio ed emissione di gas serra.


La FAO ha dunque iniziato ad interessarsi agli insetti come fonte sostenibile di proteine di origine animale per la nutrizione umana. Poiché gli insetti occupano meno spazio e richiedono meno risorse per crescere, il loro impatto complessivo sull'ambiente risulta molto meno dannoso rispetto al tipico allevamento di mammiferi, che li rende buoni candidati per una fonte di cibo globale.
Dove vengono consumati oggi?
Attualmente gli insetti vengono consumati come parte della dieta quotidiana o sua integrazione in un elevato numero di paesi del mondo, in via di sviluppo e non, fra cui Asia, America Latina, Africa e Oceania. Certo è difficile quantificare il numero di specie impiegate: innanzitutto a causa della disomogeneità delle diete all'interno delle varie zone ed anche per il mancato utilizzo di una classificazione delle specie.
L'usanza di mangiarne ha radici molto più profonde di quanto si possa pensare e non è tipica solo delle civiltà più povere selvagge ma anche di quelle più evolute e raffinate.
In America e in Europa ci sono cuochi e scienziati impegnati, già da un decennio, nello studio e ricerca dell'importanza storica, culturale ed ecologica dell’usanza di mangiare insetti.
Secondo dati statistici della Coldiretti, l’entomofagia rappresenta una novità che vede contrari ben il 54% degli italiani che la considerano estranea alla cultura alimentare nazionale, mentre sono indifferenti il 24%, favorevoli il 16% e non risponde Il 6%. Pochissimi, in particolare, i favorevoli alla possibilità di mangiare insetti interi.
Caratteristiche nutrizionali.
Già nella preistoria l'uomo si cibava di insetti ma poi, soprattutto nei paesi industrializzati, i pregiudizi culturali hanno preso il sopravvento. Oggi gli unici alimenti consumati, derivanti da essi, sono miele e pappa reale eppure molte persone hanno già mangiato insetti in forme diverse senza nemmeno saperlo. Gli insetti rappresentano una fonte di cibo altamente nutriente perché forniscono proteine di alto valore biologico, sono ricchi di aminoacidi essenziali tra cui lisina, metionina e leucina e sembrano contenere una quantità maggiore di acidi grassi polinsaturi (il contenuto varia significativamente a seconda della specie e dalla loro alimentazione) ed elevati livelli di minerali tra cui ferro, rame, zinco, magnesio, manganese, fosforo, selenio e vitamine B1, B2 e B3 se comparati agli animali da allevamento.
Nonostante il crescente entusiasmo, rimangono numerosi punti interrogativi che riguardano principalmente i rischi per l'uomo; il riconoscimento ufficiale degli insetti come alimento, infatti, non può prescindere dalla presenza di dati microbiologici, chimici e tossicologici che ne attestino la sicurezza per il consumatore finale, le capacità produttive degli allevamenti e l'impatto ambientale. Non ultimo anche il reale interesse dei consumatori circa il possibile consumo abituale di insetti in sostituzione della carne.


Quanto è sicuro consumare insetti?
Secondo l'EFSA consumare pietanze con specie di insetti (ritenute sicure) per la salute umana risulta sicuro quanto mangiare una cotoletta poiché ogni fase degli allevamenti sarà soggetta a controlli e obblighi relativamente a: specie di insetto e suo stato di salute; tipo di terreno di crescita impiegato; indagine chimica e microbiologica dell'allevamento; conformità degli impianti di lavorazione e stoccaggio; delle procedure di etichettatura ed immissione in commercio. Il rispetto della normativa renderà sicuro il consumo di insetti così come quello di altri alimenti, ma i ricercatori stanno focalizzando la loro attenzione sulla potenziale comparsa di allergie poiché gli insetti presentano una struttura simile a quella dei crostacei: contengono in gran quantità la chitina e la tropomiosina che, in persone sensibili, potrebbero provocare severe reazioni allergiche e perfino shock anafilattico. Ci sono inoltre molteplici aspetti ancora oggetto di studio e ricerca tipo quelli relativi al rischio di possibili zoonosi, patogeni, tossine e contaminazione con metalli pesanti causati dal consumo di insetti.
Gli insetti possono essere preparati come prodotti alimentari o mangimi in modo relativamente facile. Alcune specie possono essere consumate intere, altre possono essere anche trasformate in impasti o macinate prima di essere consumate o le loro proteine possono essere estratte ed utilizzate a parte.
Legislazione.
Dal punto di vista normativo devono essere sviluppate regolamentazioni a livello nazionale ed internazionale per gestire la produzione del consumo di alimenti e mangimi di origine entomologica nel contesto della salute umana e del benessere animale. Certamente è necessario rendere ottimali le metodiche per la valutazione dei rischi connessi all’allevamento di massa ed alla raccolta in natura per evitare l'introduzione di specie aliene ed invasive nelle popolazioni naturali ed insetti.
Dal punto di vista microbiologico sia gli insetti selvatici che quelli d'allevamento possono essere attaccati da microrganismi patogeni quali funghi, batteri, protozoi, virus e altro. Generalmente questi patogeni sono tassonomicamente molto distanti da quelli che affliggono i vertebrati quindi in linea generale possono essere considerati innocui per l'uomo ma anche in questo caso le ricerche devono essere approfondite per dare maggiori certezze a livello sanitario e sicurezza al consumatore.
La nuova normativa sui Novel Food Reg. (UE) 2015/2283, che abroga il Reg. (UE) 258/97, introduce gli insetti tra i novel food ma ai fini di un eventuale impiego alimentare, è necessario richiedere una preventiva autorizzazione a livello UE previo accertamento della loro sicurezza alle quantità di assunzione proposte. L’autorizzazione di un novel food deve essere richiesta alla Commissione Europea, seguendo le linee guida pubblicate dall’EFSA. Il novel food può essere immesso in commercio solo dopo il rilascio dell’apposita autorizzazione, alle condizioni stabilite dalla stessa.


Al momento, in Italia, nessuna specie di insetto (o suo derivato) è autorizzata per impiego alimentare. Nel frattempo gli Stati membri che ne hanno ammesso la commercializzazione prima del 1 gennaio 2018 possono continuare a mantenerli sul loro mercato.
Attualmente le autorità che si occupano di sicurezza alimentare e i legislatori si trovano in una situazione peculiare. Da un lato devono disporre di evidenze scientifiche valide per poter definire i potenziali rischi, dall'altro sono pressati dagli OSA e dai potenziali consumatori che ritengono i ritardi tecnico-normativi come inutili ostacoli alla diffusione di un alimento salubre, ecologico e già diffuso.
In conclusione.
È fondamentale, così come succede per tutti gli altri animali domestici, che le condizioni di igiene vengano controllate durante l'allevamento e il procedimento di conservazione.
I metodi più adatti ad abbattere qualunque tipo di residuo patogeno sono: la cottura, il congelamento, l'essiccamento o l’acidificazione.
La strada per la diffusione dell’entomofagia in Europa è sì aperta, ma solo il tempo potrà mostrarci l'evoluzione dei consumi alimentari in tale direzione ed è al momento difficile prevedere cambiamenti radicali soprattutto in paesi come il nostro, ove la cultura alimentare è fortemente ancorata alle tradizioni.

ELISA BONAFEDE

 

Fonti:

"Entomophagy and italian consumers: an exploratory analysis". Progress in nutrition. Dec. 2015 Giovanni Sogari;

Food and agricolture Organization of the United Nations. "Edible insects. Future prospects for food and feed security" Report FAO 2016;

Reg. UE 2015/2283 del Parlamento Europeo sui novel food;

Bellucco, Losasso, Maggioletti, Alonzi, Paoletti e Ricci. "Edible insects in a food safety and nutritional perspective: a critical review".

Fin dai tempi più antichi l’uomo ha associato alle piante ed ai loro estratti una capacità curativa (1).

Tra le principali piante utilizzate fin dall'antichità a scopo terapeutico possiamo ricordare la salvia, il papavero, l'assenzio e in particolare l'aglio le cui origini, ancora oggi, sembrano incerte. Ben più note, invece, sono le sue capacità benefiche: antibiotico, antisettico, balsamico, antipertensivo. Questa vera panacea presenta comunque uno svantaggio: l’odore antisociale che lascia a chi lo assume. I responsabili della formazione del tipico odore dell'aglio sono composti solforati contenuti nella pianta, in particolare l'allicina la quale viene liberata quando l'enzima allinasi, normalmente contenuto nel vacuolo, agisce sull'alliina, un composto incolore ed insapore. Tutto ciò accade ogni volta che l'aglio viene “danneggiato”, per esempio durante la masticazione, il taglio, oppure la spremitura; questo è il motivo per cui, invece, gli spicchi interi non hanno odore. Le problematiche dell'aglio relative al cattivo odore possono essere risolte attraverso un processo di fermentazione che vede coinvolti i batteri L. Plantarum e Weissella. Si tratta di un processo che permette di ottenere, a partire dall'aglio fresco, il cosiddetto Aglio nero (Black Garlic), così chiamato in quanto, durante il processo di fermentazione che avviene a temperature e umidità controllate, ne viene modificato il colore (da chiaro a scuro), oltre che il sapore (da amaro a dolce) e la consistenza (da duro a gommoso).

Questo processo di fermentazione sembra andare a modificare anche il contenuto nutrizionale dell'aglio; si assiste, difatti, ad un aumento del contenuto degli zuccheri, dei polifenoli, dei flavonoidi, mentre a diminuire sono i fruttani essendo ampiamente utilizzati durante lo stesso processo di fermentazione.

La durata del trattamento varia in funzione della varietà dell’aglio, del produttore e dei suoi obiettivi, ma solitamente i bulbi di aglio fresco vengono lasciati fermentare per 1 mese circa, dopodiché si lasciano ossidare all’aria per altri 45 giorni.

Secondo un ampio numero di studi scientifici, gli estratti ottenuti dal Black Garlic sono caratterizzati da proprietà antiossidanti, antiallergiche, antidiabetiche, antiinfiammatorie ed antitumorali (2). In particolare, l'estratto metanolico dell'aglio nero e le frazioni da esso ottenute sembrano mostrare effetti antiproliferativi ed epatoprotettivi. Ciò è stato dimostrato attraverso studi condotti in vitro utilizzando la linea cellulare di adenocarcinoma epatico (HepG2). Nello specifico, tramite saggi di vitalità cellulare, è stato dimostrato l'effetto antiproliferativo indotto dal trattamento con l'estratto metanolico dell'aglio nero; attraverso il saggio dell'ossido nitrico, invece, è stato dimostrato che la concentrazione di ossido nitrico (NO) rilevata nel mezzo cellulare aumenta del 36% solo a 2 mg/ml di estratto. Si tratta di un risultato di grande interesse in considerazione delle molteplici azioni fisiologiche (vasodilatazione, trasduzione dei segnali neuronali) e patologiche (apoptosi) che questo secondo messaggero è in grado di esercitare in diversi tessuti. Infine, attraverso il saggio colorimetrico Oil Red O (ORO) è stata evidenziata una diminuzione dell'accumulo di goccioline lipidiche nel citoplasma delle cellule HepG2 trattate con l'estratto metanolico rispetto alle cellule HepG2 non trattate.

Le differenti proprietà biologiche dell'aglio nero, e in particolare dell'estratto metanolico, indicano che rappresenta un alimento potenzialmente utilizzabile per la salute umana al fine di poter contrastare “naturalmente” diverse patologie alle quali l'uomo può andare incontro.

Ulteriori studi sono comunque necessari al fine di individuare e caratterizzare i composti responsabili delle attività biologiche osservate e chiarire i meccanismi molecolari alla base di tali attività.

ROSY MAUCIONE

 

FONTI:

  • Burt S.

Essential oils: their antibacterial properties and potential applications in foods- -a review. Int J Food Microbiol. 2004; 94:223-253.

  • Kimura S., Tung Y.C., Pan M.H., Su N.W., Lai Y.J., Cheng K.C.

Black garlic: A critical review of its production, bioactivity, and application. J Foof Drug Analysis. 2017; 25:62-70.

Ci sono tantissimi buoni motivi per seguire le stagioni nelle nostre scelte alimentari.

Prima di tutto, spiegare nel dettaglio l’esatta stagionalità del carciofo ci conferisce quell’aria da “contadino, scarpe grosse e cervello fino”, che serve sempre a far bella figura. In secondo luogo, chi preferirebbe quelle palline rosse insapori, che a dicembre chiamano pomodori, rispetto ai succosi e saporiti cuore di bue che troviamo d’estate? Se per voi l’aspetto organolettico non è una motivazione sufficiente, lo sarà senz’altro l’aspetto nutrizionale. I vegetali che giungono a maturazione completa con i tempi e le temperature adeguati sviluppano tutte quelle sostanze (leggi: vitamine, minerali, acidi organici, fitonutrienti, macronutrienti e via dicendo) che non solo servono alla pianta, ma sono anche benefiche per il nostro organismo e fondamentali per una dieta sana ed equilibrata. Se invece la maturazione è “forzata” o addirittura non raggiunta, la pianta non svilupperà tali sostanze, o comunque non nelle quantità che ha normalmente. A questo proposito, qualcuno di voi si chiederà: se un vegetale viene raccolto in un paese dove in questo momento “è stagione” vuol dire che è comunque giunto a maturazione, che cosa cambia alla fine? In questo caso il punto è la freschezza: è facile intuire che i vegetali che giungono da altri paesi o continenti sono sottoposti a viaggi di giorni e giorni e molti di questi vengono conservati a lungo in celle frigo. I micronutrienti presenti negli alimenti sono piuttosto fragili (chi più chi meno) e variazioni di temperatura, di luce, urti, il passare stesso del tempo portano a una perdita significativa in termini di valore nutrizionale. Dunque, generalmente, meno tempo è passato da quando un vegetale è stato raccolto a quando è giunto sulla nostra tavola, meglio è. Certamente, non tutti abbiamo il lusso di avere sotto casa un rigoglioso orto, dunque è bene fare scelte oculate nei nostri acquisti. Ulteriore aspetto nutrizionalmente positivo nel seguire la stagionalità dei cibi: la varietà. Il fatto che pochi cibi crescano indifferentemente tutto l’anno, ci obbliga a modificare le nostre scelte e la gamma di piatti preparati quasi ogni mese. E ciò è davvero un toccasana per la nostra salute. Non esiste, infatti, l'alimento "completo" o "perfetto" che contenga tutte le sostanze indispensabili alla nostra salute e che sia quindi in grado di soddisfare da solo le nostre necessità. Perciò, il modo più semplice e sicuro per garantirci l'apporto di tutti gli elementi nutritivi è quello di variare il più possibile le nostre scelte alimentari. Così facendo, non solo evitiamo il pericolo di squilibri nutrizionali e delle loro conseguenze sulla nostra salute, ma soddisfiamo anche maggiormente il nostro palato, combattendo la monotonia dei sapori. Inoltre, variare sistematicamente e razionalmente le scelte dei cibi significa ridurre un altro rischio che può derivare da abitudini alimentari monotone, vale a dire l’ingestione ripetuta e continuativa – mangiando sempre gli stessi alimenti – sia di sostanze estranee eventualmente presenti, sia di composti "antinutrizionali" in essi naturalmente contenuti. Per di più, non richiedere al mercato sempre gli stessi prodotti (e le stesse varietà dello stesso prodotto, per giunta) fa sì che incentiviamo a proteggere l’incredibile biodiversità dei vegetali italiani. Se anche l’aspetto nutrizionale non vi sprona a seguire il calendario, perché non parlare del portafogli? Sì perché chi mangia di stagione risparmia! Infatti, nel prezzo finale della verdura e della frutta fuori stagione che oggi abbonda nei reparti del supermercato verranno necessariamente inclusi maggiori costi produttivi (ad esempio per gli strumenti necessari a crescere un vegetale in un clima diverso dall’usuale, come maggiori prodotti fitosanitari o serre riscaldate), maggiori costi di conservazione (come quelli legati alle celle frigo nelle quali i prodotti fuori stagione perdurano per più tempo) e maggiori costi di trasporto (che sia da una regione diversa d’Italia, da un Paese estero o addirittura da un altro continente). E tutto ciò non si ripercuote solamente sulle nostre tasche, ma anche sul nostro amato Pianeta, in termini di energia (non pulita) consumata e CO2 prodotta. Vediamo dunque cosa ci riserba ogni stagione!

Dato che siamo già ad aprile, iniziamo con la primavera. Il risveglio della natura ci regala i saporiti asparagi, ricchi di carotenoidi e acido folico, i cetrioli, i fagiolini, gli zucchini, le melanzane, i ravanelli e i carciofi, quest’ultimi già presenti dall’inverno, con la loro importante ricchezza di fibra, potassio e acido folico. Se una ciliegia tira l’altra è meglio che lo faccia in questa stagione, perché sarà più ricca di carotenoidi, antocianine e vitamina C. Iniziano a esserci anche meloni e angurie, più caratteristici però dell’estate. Protagoniste della primavera (ma anche dell’estate) sono le gustose fragole, con il loro prezioso apporto di carotenoidi, antocianine, quercetina e vitamina C. Fra inverno e primavera troviamo il pompelmo, mentre a cavallo fra primavera ed estate spuntano le arancioni albicocche, non a caso campionesse di carotenoidi, ma anche di potassio e vitamina C.

Il tripudio della vegetazione continua con l’estate. Inizia qui la raccolta dell’aglio, immancabile nella dieta Mediterranea, con il suo caratteristico odore e sapore dato dai benefici composti solforati: l’aglio sarà “di stagione” anche nel successivo autunno, ma possiamo considerarlo un vegetale annuale perché la conservazione per tutto l’anno non ne altera le proprietà. Insieme a lui, come non ricordare le cipolle, maestre dei nostri soffritti e fonti della benefica quercetina? Ma il protagonista indiscusso della cucina Italiana è senz’altro il pomodoro, re dell’estate con il suo potente e rosso licopene. Già presenti in primavera, ricordiamo i saporiti peperoni, fra le verdure più ricche di vitamina C. Proseguono i cetrioli, i fagiolini, gli zucchini, i ravanelli e le melanzane, il colore di questi ultimi dato dalle benefiche antocianine. Già dalla primavera iniziamo a vedere pesche e susine, ma è l’estate la loro stagione predominante. Stesso discorso vale per melone e anguria, fedeli compagni delle nostre afose giornate estive. Estivi sono anche i frutti di bosco: more, mirtilli, lamponi e ribes non sono solo belli a vedersi sulle nostre crostate, ma anche estremamente benefici con la loro ricchezza di fibra, magnesio, vitamina C e antocianine. D’estate si caricano di frutti anche le rigogliose vigne: approfittiamone, l’Italia è il Paese al mondo dove si produce più uva, la cui vendemmia prosegue anche nell'autunno.

Rimaniamo quindi in tema e parliamo dei vegetali che ci regala questa colorata stagione. Protagonisti dell’autunno sono i due frutti bianchi, già presenti in estate e che proseguiranno anche in inverno: le pere e le mele, che veramente ci tolgono il medico di torno, perché fonti preziose di fibra, vitamina C e quercetina. Ma abbiamo anche un simpatico frutto arancione: il dolce caco, che ha questo colore proprio per la sua ricchezza di carotenoidi. Come non citare poi l’autunnale castagna? Racchiusa nel suo riccio spinoso, non è ricca d’acqua come il resto della frutta, ma d’amido, ed è per questo che se ne ricava anche una farina con cui preparare piatti prelibati. Col loro odore non esattamente piacevole, ci accompagneranno per tutto l’autunno e l’inverno successivo i bianchi cavolfiori, ricchi di fibra, potassio e vitamina C e i verdi broccoli, fonti preziose non solo di fibra, potassio e vitamina C, ma anche di carotenoidi, vitamina K e dei potenti composti anticancro della famiglia delle Crucifere, i glucosinolati. Inizieranno poi a esserci anche agrumi e kiwi, ma anche zucche, sedano, cardi, cicoria e radicchio, i quali però saranno i protagonisti dell’inverno. Super autunnali sono invece i porri, gustosi e ricchi di fibra e potassio, e i fichi, fonti eccezionali di carotenoidi, antocianine e magnesio.

Concludiamo la nostra carrellata di sapori con quelli della fredda stagione invernale. A scaldarci saranno sicuramente la vasta gamma di minestre, minestroni, creme e zuppe a base di Crucifere, di cui fanno parte i già citati cavolfiore e broccolo, ma anche i cavoli e le verze, protagonisti veri dell’inverno. Il cavolo, in particolare, ci apporterà dosi massicce di vitamina C (se consumato crudo però!), ma anche di vitamina K e, i già citati, glucosinolati. Se la vitamina C delle Crucifere non vi bastasse, perché non attingere a quella dei molto più famosi agrumi, re dell’inverno. Arance, limoni, mandarini e mandaranci, per non parlare del peloso kiwi saranno un toccasana per la nostra salute. Concludiamo l’inverno in bellezza con rape, sedano, cardi e radicchio, quest’ultimo fonte eccellente di fibra e carotenoidi, come pure l’arancione zucca e le sue gustose creme.

 

Per non sbagliarvi, tenete a mente che ci sono vegetali che sono “di stagione” praticamente tutto l’anno. Con questi non farete mai brutta figura. Parliamo delle biete e degli spinaci, che a Braccio di Ferro non facevano solo crescere i muscoli, ma apportavano soprattutto fibra, potassio, vitamine C e K, acido folico e gli immancabili carotenoidi. Parlando di carotenoidi non possiamo dimenticare la carota, che il simpatico Bugs Bunny può sgranocchiarsi tutto l’anno. Stesso discorso per patate, legumi secchi, finocchio ed erbe aromatiche. Concludiamo con un vegetale immancabile sulla tavola degli italiani, ricco di carotenoidi, vitamina K, potassio, vitamina C e acido folico: la nostra cara insalata, il contorno che sta bene con tutto e che ci salva tutte le cene improvvisate.

Questo articolo non vuole essere una lezione sulle stagioni, ma un invito a essere curiosi sulla ricchezza che ci offre la Natura. In un mondo dove i bambini credono che la melanzana nasca già sotto forma di parmigiana, proviamo a insegnar loro da dove proviene il cibo, quando e come nasce, quale duro lavoro c’è dietro. Raccontiamo loro la storia di ogni singolo boccone e in futuro saranno consumatori consapevoli.

ELENA FERRERO

Fonti:

  • l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. LINEE GUIDA PER UNA SANA ALIMENTAZIONE ITALIANA, revisione 2003.
  • verduredistagione.it
  • slowfood.it

Quando scegliamo un alimento, il colore è una variabile molto importante nella nostra decisione finale. Alcuni alimenti sono dotati di un colore caratteristico già in origine, altri lo acquisiscono durante i processi di lavorazione, come ad esempio il beige della crosta del pane o il rosa del prosciutto cotto. Appena sente la parola “colorante”, il consumatore inizia subito a storcere il naso – come dargli torto, dopotutto –, è però importante sapere che esistono molti coloranti naturali (pigmenti), che ricaviamo proprio da piante che in natura possiedono già un colore caratteristico. La bella notizia è che molto spesso questi pigmenti naturali, oltre a deliziarci gli occhi con sgargianti colori, hanno anche effetti positivi per la salute umana.

È il caso della curcumina (E100), contenuta nella curcuma (Curcuma longa) – per secoli usata come tintura gialla per tessuti - o dei carotenoidi (E160a) – di cui il principe è il beta-carotene -, che danno il classico colore alle carote, ai cachi, al mango, alle alghe rosse e anche al famigerato olio di palma (che non a caso viene anche usato per conferire il colore giallino alle margarine). Il carotenoide forse più famoso – e positivissimo per la salute – è il licopene (E160d), che è il responsabile del colore rosso accesso del pomodoro e di tanti altri vegetali rossi. Come non pensare, poi, al caratteristico colore che lo zafferano conferisce ai gustosi risotti? Esso è dovuto a un altro carotenoide, la crocetina. Da sottolineare l’elevato costo di questo prezioso colorante naturale: sono infatti necessari ben 150 000 stigmi dei fiori di Crocus sativus per produrre 1 kg di spezia. Ma i carotenoidi non si trovano solo nel regno vegetale! Il bel colore acceso del tuorlo d’uovo è infatti dato da tipologie di carotenoidi detti luteina e zeaxantina, che la gallina ottiene proprio dall’alimentazione vegetale (da qui, è facile capire come il colore del tuorlo cambi molto a seconda di come l’animale viene nutrito).

Se pensavate di non aver mai mangiato insetti in tutta la vostra vita (discorso piuttosto attuale, visti gli ultimi aggiornamenti legislativi sul tema), forse vi sbagliate! L’acido carminico (E120) della cocciniglia, che dona appunto un vivace colore rosso carminio, viene estratto dai Coccus cacti, insetti simili ad afidi, parassiti dei cactus.

Altro rosso intenso è quello della barbabietola (Beta vulgaris), dovuto al pigmento betaina (E162), che riesce a colorare di porpora anche i nostri denti!

Un altro interessante pigmento – dal colore verde acceso - è la clorofilla (E140), ricavato dall’erba medica essiccata e macinata. Lo ritroviamo nella buccia delle mele e in tutti i frutti acerbi, nei piselli e in tutti gli ortaggi verdi.

Ma i pigmenti di gran lunga più diffusi e conosciuti sono le antocianine (E163), che possiamo ritrovare in una grandissima varietà di cibi, dai frutti di bosco, al cavolo rosso: essi colorano frutta, verdura, legumi e cereali (ma anche i fiori!) di rosa, rosso, viola e blu. A loro sono anche dovute le mille sfumature dei vini rossi.

Dunque, che aspettiamo? Godiamoci tutto l’arcobaleno dei cibi!

ELENA FERRERO

Fonte: "La biochimica degli alimenti" Tom P. Coultate, Ed. Zanichelli, 2005.

Le vitamine sono spesso associate nell'immaginario collettivo più a pillole e pasticche che ad alimenti. Checché ce ne dicano industrie e pubblicità, tuttavia, benché l’alimentazione umana sia variata molto dall'antichità ai giorni nostri, possiamo ancora ottenere tutto ciò di cui abbiamo bisogno per mantenere un buono stato di salute dal cibo tal quale, basta fare scelte oculate e consapevoli quando si tratta di fare la spesa. Per di più, anche il pensiero preventivo del “va beh, io ne prendo in abbondanza, mal che vada me le tengo per quando mi mancano”, non è sempre vero, anzi. Gli integratori sono comunque molto utili (e consigliati) in stati fisiologici particolari (come la gravidanza) o patologici (come in caso di malnutrizione, carenze specifiche, ecc).

Ma cosa sono le vitamine? Beh, non è facile definirle, in quanto sono un gruppo molto eterogeneo di sostanze, con una struttura organica generalmente complessa, ritrovate in diversi materiali biologici (non solo alimenti!). Le varie vitamine, insomma, dal punto di vista chimico non hanno nulla in comune ed è risultato piuttosto difficile per gli scienziati dell’epoca classificarle. Tuttavia, ci sono quattro aspetti che le riguardano tutte:

  • Sono costituenti essenziali di sistemi biochimici o fisiologici della vita animale (e spesso anche di quella vegetale e microbica!), dunque anche per l’uomo;
  • Gli animali hanno perso, in seguito all’evoluzione, la capacità di sintetizzarle in quantità adeguate, devono perciò essere assunte dall’esterno;
  • Le ritroviamo, solitamente, in quantità molto modeste (rispetto a sostanze come acqua, proteine, carboidrati, lipidi e fibre) nei materiali biologici;
  • La loro assenza nell’organismo determina delle sindromi specifiche, sintomo della loro carenza.

Già nell’antichità si sapeva che molte delle nostre malattie derivano da carenze alimentari. Pensate che nel papiro di Eber, risalente al 1150 a.C., si ritrovava già una precisa descrizione dello scorbuto - patologia causata dalla carenza di vitamina C - che già si associava alla dieta povera dei marinai, costretti a consumare solo alimenti conservati, trasportabili sulle navi durante i loro lunghi viaggi. Essi manifestavano emorragie gengivali, apatia, irritabilità, perdita di peso, dolori muscolari e articolari: le vecchie ferite cedevano e le nuove stentavano a guarire. Ma già Ippocrate, nel 420 a.C., ne era a conoscenza. Solo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX, tuttavia, tale misteriosa malattia è stata sconfitta, scoprendo che bastava del semplice succo di limone a far regredire la sintomatologia. Allo stesso modo, fin dal 2600 a.C., gli erbari cinesi descrivevano il beriberi, la patologia causata dalla carenza di vitamina B1.

Malgrado fosse stato notato fin da subito il legame con il regime alimentare, solo a partire dal XX secolo si inizia ad accettare l’idea che queste (e altre) malattie potessero essere causate dall’assenza di qualcosa di essenziale, più che dalla presenza di qualcosa di dannoso. Ad esempio, la pellagra – malattia causata dalla carenza di vitamina B3 – veniva collegata al consumo di mais avariato e non alla mancanza di tale vitamina nel cereale, protagonista delle diete poverissime del tempo.

Alla scoperta della vitamina B1 si riconduce il primo rudimentale modello sperimentale animale sull’argomento. Nel 1886 giunge in Indonesia il Dottor Christian Eijkman, per indagare che cosa provoca la malattia nota come beriberi, nome che in malese significa "pecora" (poiché i poveri affetti dalla patologia, in seguito a ptosi del piede, camminano senza appoggiare le dita del piede e il tallone, tenendoli sollevati da terra e sollevando la gamba più del normale, al pari di alcuni animali).

Mentre è alla ricerca dell’agente batterico che si riteneva esserne la causa, egli nota una somiglianza della malattia con una sindrome di paralisi che si manifestava nei polli. Nessuno fa alcun collegamento con l’alimentazione degli animali, finché la sindrome improvvisamente scompare in concomitanza con un cambiamento della dieta dei pennuti: dal riso sbramato a quello integrale. Eijkman intuì e in seguito confermò la relazione fra la dieta e la patologia, osservando che l’incidenza del beriberi nei prigionieri giavanesi a cui venivano date razioni di riso sbramato era del 2,8%, mentre quasi si annullava (0,09%) in quelli nutriti con il riso integrale. Qual era il misterioso fattore che determinava le diverse proprietà dei differenti tipi di riso? Senz’altro si trattava di una sostanza chimica, intuì, poiché gli estratti chimici o acquosi della crusca di riso davano lo stesso risultato. Circa 25 anni dopo, il dottor Casmir Funk si avvicinò all’isolamento del “fattore anti-beriberi” dalla crusca di riso. Fu proprio Funk che, sospettando che tale fattore potesse essere dal punto di vista chimico un’ammina, inventò la parola vitamine, dall’unione dei termini vital e amine (ammina vitale). Quando, in termini decisamente più recenti, fu chiaro che le altre sostanze di questo genere non erano affatto ammine, si rimosse la “e” finale dal termine inglese, che rimase vitamin.

Man mano che la scienza proseguiva, anche i metodi di ricerca si raffinavano. Studi dei primi del Novecento su ratti nutriti con razioni purificate di proteine, grasso, amido e minerali suggerirono la necessità di “fattori di crescita”, che nelle loro diete volutamente mancavano. McCullom e Davis ipotizzarono l’esistenza di due di questi, uno da loro chiamato “fattore liposolubile A” (che doveva trovarsi nel grasso del latte e nel tuorlo d’uovo) che sembrava prevenire la cecità notturna, e l’altro denominato “fattore idrosolubile B” (che invece si ritrovava in frumento, latte e tuorlo d’uovo). Negli anni ’20 si inizio a impiegare il termine “vitamina C” per indicare un fattore idrosolubile sconosciuto che si ritrovava in frutta e verdura e che sembrava prevenire lo scorbuto. Nello stesso periodo viene isolato un altro fattore solubile nei grassi, ma diverso dalla vitamina A, coinvolto nella prevenzione del rachitismo: si coniò così il termine “vitamina D”. Col passare del tempo si capì che il “fattore idrosolubile B” era composto da un insieme di diverse vitamine (oggi si parla di complesso vitaminico B), di natura chimica anche diversa.

Certo il percorso che portò all’identificazione di tutte le vitamine oggi conosciute fu lungo e complesso. Si pensi che per isolare la vitamina B5 furono necessari ben 250kg di fegato di pecora! È grazie a queste valorose pecore, che oggi… ehm, torniamo seri. È grazie al complesso lavoro e alla determinazione nel perseguire la scienza di studiosi e studiose che oggi conosciamo la preziosa importanza delle vitamine nella nostra alimentazione.

ELENA FERRERO

Fonte: "La biochimica degli alimenti" Tom P. Coultate, Ed. Zannichelli, 2005.