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Cenni storici e curiosità

Alimento prodotto principalmente con farina, acqua, sale e un agente lievitante; impastato, lievitato, formato e cotto in forno. In Medio Oriente e in Europa, l’importanza del pane è sempre stata considerevole, dal punto di vista alimentare e simbolico. Per i cristiani, nell’Eucarestia, il pane rappresenta il corpo di Cristo. Un gran numero di espressioni, inoltre, sottolinea l’importanza del pane: “guadagnarsi il pane con il sudore della fronte”, “levarsi il pane di bocca”, “buono come il pane”.

 Si narra che la scoperta del pane lievitato fu conseguenza di un fatto casuale avvenuto presso un panettiere egiziano, il quale avrebbe dimenticato per diverse ore a temperatura ambiente una pappa di cereali che, contaminata da un lievito naturale o da batteri, sarebbe fermentata e lievitata in seguito alla riproduzione dei microrganismi nella farina.

Il primo agente lievitante utilizzato dagli Egizi fu il fermento o pasta acida, ovvero una pasta lievitata il giorno prima con un lievito naturale e i batteri presenti nell’aria. Gli Egizi furono quindi i primi panificatori professionisti e, a loro, si deve anche l’invenzione del forno con la camera di combustione separata da quella di cottura.

Gli Ebrei avrebbero appreso dagli Egizi a produrre il pane lievitato e durante l’esodo, non disponendo di lievito, avrebbero creato il pane azzimo.

Successivamente i Romani adottarono i procedimenti di panificazione degli Egizi, diffondendoli poi per l’Impero.

Si racconta anche che nel III secolo a. C. i Greci fossero divenuti maestri nella panificazione e che producessero 70 tipi di pane. Furono loro probabilmente i migliori panettieri dell’antichità!

Da quest’epoca si tramanda l’uso del lievito di birra, che produce un pane leggero e gonfio.

Il pane consumato dall’aristocrazia era prodotto da farina setacciata a lungo, mentre il popolo consumava pani integrali, più semplici da preparare. Solo a partire dal Medioevo i pani cominciarono a diversificarsi.

Alla fine del XVIII secolo, negli Stati Uniti fu introdotto l’uso di una forma grezza di bicarbonato di sodio, che consentì di abbreviare i tempi di preparazione del pane. Questa polvere infatti, agisce più rapidamente del lievito grazie al calore della cottura.

A partire dal 1850 l’uso del lievito chimico si diffuse nel mondo intero.

Oggi l’industria della panificazione è molto meccanizzata, in funzione di una produzione di pane su larga scala. La fermentazione naturale della pasta (quando farina e acqua sono mantenute per un certo periodo di tempo a temperatura ambiente) è un processo lungo e imprevedibile.

Per tale motivo si è passati all’uso del fermento, una porzione di pasta fermentata cruda prelevata da una precedente panificazione. Il fermento è acido e ciò inibisce la formazione di batteri patogeni. Comunemente chiamato pasta acida, si deteriora se non viene utilizzato entro una settimana, quindi è necessario aggiungere farina e acqua se lo si vuole conservare più a lungo.

Rinfrescare la pasta acida con aggiunta di acqua e farina prima della panificazione  è un’operazione piuttosto laboriosa. Per questo motivo è stata sostituita dal più pratico lievito di birra, che agisce in modo più rapido ed è costituito da lieviti Saccharomyces cerevisiae. Il lievito è una coltura viva. Industrialmente si produce inoculando una colonia di lieviti su un terreno di coltura generalmente costituito da melassa di bietola, acqua, acido solforico, solfato di calcio, Sali di ammonio, fosfato di sodio e solfato di magnesio.

Il pane nella legislatura italiana

Per tutelare il pane, chi lo produce e chi lo consuma, in Italia la legge ne stabilisce chiaramente le caratteristiche e le eventuali denominazioni.

Negli anni del boom economico e in un periodo storico in cui l’Italia era interessata dalla ripresa e dal fiorire dell'intero sistema produttivo dopo gli anni della guerra, il Parlamento italiano promulgò la legge n.580 del 4 luglio 1967,che disciplinava la lavorazione e il commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste alimentari.

Circa trent’anni dopo fu emanato il DPR 30 novembre 1998, n. 502, recante norme per la revisione della normativa in materia di lavorazione e di commercio del pane.

Al Titolo IIIArt. 14 della Legge n.580 troviamo la definizione di pane comune, ovvero il “prodotto ottenuto dalla cottura totale o parziale di una pasta convenientemente lievitata, preparata con sfarinati di grano, acqua e lievito, con o senza aggiunta di sale comune (cloruro di sodio)”.

La legge (Art. 16) stabilisce il massimo contenuto di acqua da utilizzare all'interno delle varie ricette di pane, qualunque sia il tipo di sfarinato impiegato, ad eccezione del pane prodotto con farina integrale, per il quale è consentito un aumento del 2%:

  • pezzature sino a 70 g, max 29%
  • pezzature da 100 a 250 g, max 31%
  • pezzatura da 300 a 500 g, max 34%
  • pezzature da 600 a 1000 g, max 38%
  • pezzature oltre i 1000 g, max 40%.

Sono definiti altresì i diversi tipi di pane e le relative denominazioni di vendita:

  • il pane prodotto con farina di grano tenero tipo 00 è denominato «pane di tipo 00»;
  • il pane prodotto con farina di grano tenero tipo 0 è denominato «pane di tipo 0»;
  • il pane prodotto con farina di grano tenero tipo 1 è denominato «pane di tipo 1»;
  • il pane prodotto con farina di grano tenero tipo 2 è denominato «pane di tipo 2»;
  • il pane prodotto con farina integrale è denominato «pane di tipo integrale»;
  • il pane prodotto con semola o con semolato di grano duro, ovvero con rimacine di semola o semolato, è denominato rispettivamente «pane di semola» e «pane di semolato».

Secondo il DPR 30 novembre 1998, n. 502 nella produzione del pane possono essere impiegate farine alimentari quali orzo, farro, segale, etc., miscelate con sfarinati di grano. In tal caso il pane prenderà denominazione di “Pane al” seguito dal nome dello sfarinato caratterizzante impiegato, mentre gli altri sfarinati figureranno nell’elenco degli ingredienti.

I diversi tipi di pane - sopra descritti -, devono essere posti in vendita in scomparti o recipienti separati, recanti un cartellino con l’indicazione del tipo di pane e il relativo prezzo.

L’articolo 19 della legge n.580 individua un’altra tipologia di pane, ovvero il pane speciale e nel DPR n. 502 del 1998 sono stabiliti gli ingredienti consentiti: farina di cereali maltati, estratti di malto, alfa e beta amilasi, paste acide essiccate, farine pregelatinizzate di frumento, glutine, amidi alimentari, zuccheri.

È inoltre consentito l’impiego di materia grassa (burro, olio di oliva - escluso l'olio di sansa di oliva rettificato -, strutto), latte, fichi, olive, etc. etc.

Quando nella produzione del pane sono impiegati altri ingredienti alimentari, diversi da quelli previsti dall'articolo 14 della legge 4 luglio 1967 n. 580 e dall'articolo 3 del DPR 30 novembre 1998, n. 502, la denominazione di vendita deve essere completata dalla menzione dell'ingrediente utilizzato e, nel caso di più ingredienti, di quello o di quelli caratterizzanti. Tale pane venduto allo stato sfuso, deve essere tenuto, nei locali di vendita, in scaffali separati.

Inoltre:

  • il pane con aggiunta di sostanze grasse deve contenere non meno del 3% di materia grassa totale riferito alla sostanza secca;
  • il pane con aggiunta di malto deve contenere non meno del 4% di zuccheri riduttori, espressi in maltosio, riferiti alla sostanza secca;
  • il pane con aggiunta di zuccheri deve contenere non meno del 2% di zuccheri riduttori riferito alla sostanza secca;
  • lo strutto commestibile, ottenuto dai tessuti adiposi del suino, è designato con la sola parola strutto;

Ai pani ottenuti con sfarinati alimentari diversi da quelli di grano o miscelati con questi ultimi, nonché ai pani ottenuti con l'aggiunta di altri ingredienti alimentari (strutto, olio, etc.), si applicano le percentuali di umidità descritte nell’Art. 16 della legge 4 luglio 1967, n. 580, aumentate del 10%.

È altresì possibile immettere in vendita pane parzialmente cotto, pane surgelato e pane ottenuto mediante completamento di cottura di pane parzialmente cotto, surgelato o no.

Il pane parzialmente cotto destinato al consumatore finale deve essere contenuto in imballaggi singolarmente preconfezionati recanti in etichetta la denominazione "pane" completata dall’indicazione "parzialmente cotto" e l’avvertenza che il prodotto deve essere consumato previa ulteriore cottura e relative modalità della stessa.

Nel caso di prodotto surgelato, l'etichetta dovrà riportare le indicazioni previste dalla normativa vigente in materia di prodotti surgelati e la menzione "surgelato".

l pane ottenuto mediante completamente di cottura da pane parzialmente cotto, surgelato o non surgelato, deve essere distribuito e messo in vendita in comparti separati dal pane fresco e in imballaggi preconfezionati riportanti oltre alle indicazioni dalla normativa vigente in materia di etichettatura, anche:

  • "ottenuto da pane parzialmente cotto surgelato" in caso di provenienza da prodotto surgelato;
  • "ottenuto da pane parzialmente cotto" in caso di provenienza da prodotto non surgelato né congelato (DPR 30 novembre 1998, n. 502).

Le Legge 4 luglio 1967, n. 580 (rivista in parte con il DPR 30 novembre 1998, n. 502), stabilisce anche che:

  • il pane deve essere venduto a peso;
  • la vendita al pubblico del pane può essere esercitata solo dagli esercizi che abbiano ottenuto la prescritta licenza di commercio, nella quale la voce «pane» sia indicata in modo specifico;
  • il trasporto del pane dal luogo di lavorazione all'esercizio di vendita, deve essere effettuato in recipienti lavabili e muniti di copertura a chiusura, in modo che il pane risulti al riparo dalla polvere e da ogni altra causa di insudiciamento.
  • è vietato vendere o detenere per vendere pane alterato, adulterato, sofisticato o infestato da parassiti animali o vegetali.

È da ricordare infine, che nel 2018 il Ministro dello Sviluppo Economico - di concerto con il Ministro delle Politiche Agricole Alimentari, Forestali e del Turismo e il Ministro della Salute- ha emanato il Decreto interministeriale 1° ottobre 2018, n. 131 in materia di Regolamento recante disciplina della denominazione di «panificio», di «pane fresco» e dell’adozione della dicitura «pane conservato».

Il testo del DM prevede che per “panificio” si intende l’impresa che dispone di impianti di produzione di pane ed eventualmente altri prodotti da forno e assimilati o affini e svolge l’intero ciclo di produzione dalla lavorazione delle materie prime alla cottura finale.

Mentre per quanto riguarda le definizioni di «pane fresco» e «pane conservato» rimandiamo all’articolo pubblicato sulla nostra pagina il 30/07/2020. https://www.facebook.com/TuttoAlimentiConsulenza/photos/a.1283291851789612/3110351649083614/

GENÉ PAUDICE

Il Reg. UE 2017/625, in vigore dal 14 dicembre 2019, include norme sui controlli ufficiali eseguiti su tutte le aziende di alimenti e mangimi, dai produttori primari ai rivenditori al dettaglio e ai ristoratori, ma anche su selezionatori, coltivatori, allevatori e commercianti di animali e piante.

SCOPO DEL REGOLAMENTO

  • Il regolamento stabilisce norme comuni per i controlli ufficiali dell’UE volti a garantire che la legislazione riguardante la filiera agroalimentare per la protezione della salute umana, della salute e del benessere degli animali, e della sanità delle piante sia correttamente applicata e resa esecutiva.
  • Il regolamento introduce un approccio più armonizzato e coerente ai controlli ufficiali e alle misure esecutive lungo la filiera agroalimentare e rafforza il principio dei controlli basati sul rischio.

AMBITO DI APPLICAZIONE DEL REGOLAMENTO

Il regolamento riguarda i controlli ufficiali effettuati dalle autorità nazionali incaricate dell’applicazione della legge per verificare la conformità alle norme sulla filiera agroalimentare nelle seguenti aree:

  • alimenti e sicurezza alimentare, integrità e salubrità in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione;
  • l’emissione deliberata di organismi geneticamente modificati nell'ambiente per la produzione di alimenti e mangimi;
  • mangimi e sicurezza dei mangimi in qualsiasi fase della produzione, della trasformazione, della distribuzione e dell’uso;
  • salute e benessere degli animali;
  • produzione biologica ed etichettatura di prodotti biologici.

Il regolamento riguarda inoltre le importazioni di determinati animali e merci:

  • provenienti dall’esterno dell’Unione e soggetti ai controlli ai posti di controllo frontalieri dell’UE;
  • merci vendute via Internet.

SISTEMA BASATO SUL RISCHIO

Il Reg. UE 2017/625, definisce un regime di controllo basato sul rischio, in modo che le autorità nazionali preposte all’applicazione della legge effettuino i controlli ufficiali laddove sono più necessari. In generale, per garantire la loro efficacia, i controlli ufficiali verranno effettuati senza preavviso.

COOPERAZIONE TRA I PAESI DELL’UE

Il Reg. UE 2017/625:

  • Chiarisce e rafforza le norme sulla cooperazione e l’assistenza amministrativa tra i paesi dell’UE.
  • Richiede che i paesi dell’UE garantiscano lo scambio di informazioni tra autorità nazionali e altre autorità incaricate dell’applicazione della legge, procuratori e autorità giudiziarie su possibili casi di non conformità.
  • Un sistema di gestione integrato per i controlli ufficiali integrerà tutti i sistemi informatici esistenti (e futuri) gestiti dalla Commissione.

Le autorità nazionali devono pubblicare relazioni annuali.

PRINCIPALI NOVITÀ

Le principali novità del Reg. UE 2017/625 sono le seguenti:

  • Quadro armonizzato dei controlli ufficiali nell’intera filiera agroalimentare.
  • Approccio più dinamico grazie agli atti derivati (delegati e di esecuzione) per determinare gli aspetti applicativi.
  • Controlli ufficiali sulla base del rischio.
  • Istituzione dei PCF - armonizzazione dei controlli su animali e prodotti in ingresso nell' UE.
  • Collaborazione e scambio di informazioni tra le autorità competenti, le autorità doganali e le altre autorità preposte a gestire i controlli delle partite provenienti da paesi terzi.
  • Controlli nel settore dell’e-commerce.
  • Base legale più solida contro le frodi.
  • Miglioramento dell’utilizzo degli strumenti informatici - Digitalizzazione dei controlli.

DOCUMENTI CORRELATI

Vediamo quali sono i documenti correlati al Regolamento (UE) 2017/625 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2017:

  • Regolamento di esecuzione (UE) 2019/1014 della Commissione, del 12 giugno 2019, che stabilisce norme dettagliate sui requisiti minimi dei posti di controllo frontalieri, compresi i centri d’ispezione, e per il formato, le categorie e le abbreviazioni da utilizzare per l’inserimento in elenco dei posti di controllo frontalieri e dei punti di controllo (GU L 165 del 21.6.2019, pag. 10).
  • Regolamento delegato (UE) 2019/1012 della Commissione, del 12 marzo 2019, che integra il regolamento (UE) 2017/625 del Parlamento europeo e del Consiglio stabilendo deroghe alle norme per la designazione dei punti di controllo e ai requisiti minimi per i posti di controllo frontalieri (GU L 165 del 21.6.2019, pag. 4).
  • Regolamento delegato (UE) 2019/1081 della Commissione, dell’8 marzo 2019, che stabilisce norme relative a prescrizioni specifiche in materia di formazione del personale ai fini dell’esecuzione di determinati controlli fisici presso i posti di controllo frontalieri (GU L 171 del 26.6.2019, pag. 1).
  • Regolamento di esecuzione (UE) 2019/626 della Commissione, del 5 marzo 2019, relativo agli elenchi di paesi terzi o loro regioni da cui è autorizzato l’ingresso nell’Unione europea di determinati animali e merci destinati al consumo umano che modifica il regolamento di esecuzione (UE) 2016/759 per quanto riguarda tali elenchi (GU L 131 del 17.5.2019, pag. 31).
  • Regolamento delegato (UE) 2019/624 della Commissione, dell’8 febbraio 2019, recante norme specifiche per l’esecuzione dei controlli ufficiali sulla produzione di carni e per le zone di produzione e di stabulazione dei molluschi bivalvi vivi in conformità al regolamento (UE) 2017/625 del Parlamento europeo e del Consiglio (GU L 131 del 17.5.2019, pag. 1).
  • Regolamento delegato (UE) 2018/631 della Commissione, del 7 febbraio 2018, che integra il regolamento (UE) n. 2017/625 del Parlamento europeo e del Consiglio istituendo laboratori di riferimento dell’Unione europea per gli organismi nocivi per le piante (GU L 105 del 25.4.2018, pag. 1).
  • Regolamento di esecuzione (UE) 2018/329 della Commissione, del 5 marzo 2018, che designa un centro di riferimento dell’Unione europea per il benessere degli animali (GU L 63 del 6.3.2018, pag. 13).
  • Regolamento (UE) 2016/429 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, relativo alle malattie animali trasmissibili e che modifica e abroga taluni atti in materia di sanità animale («normativa in materia di sanità animale») (GU L 84 del 31.3.2016, pag. 1).
  • Regolamento (UE) n. 652/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, che fissa le disposizioni per la gestione delle spese relative alla filiera alimentare, alla salute e al benessere degli animali, alla sanità delle piante e al materiale riproduttivo vegetale, che modifica le direttive 98/56/CE, 2000/29/CE e 2008/90/CE del Consiglio, i regolamenti (CE) n. 178/2002, (CE) n. 882/2004 e (CE) n. 396/2005 del Parlamento europeo e del Consiglio, la direttiva 2009/128/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, nonché il regolamento (CE) n. 1107/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, e che abroga le decisioni 66/399/CEE, 76/894/CEE e 2009/470/CE del Consiglio (GU L 189 del 27.6.2014, pag. 1).
  • Regolamento (UE) n. 1151/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 novembre 2012, sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari (GU L 343 del 14.12.2012, pag. 1).
  • Regolamento (CE) n. 1107/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 ottobre 2009, relativo all’immissione sul mercato dei prodotti fitosanitari e che abroga le direttive del Consiglio 79/117/CEE e 91/414/CEE (GU L 309 del 24.11.2009, pag. 1).
  • Regolamento (CE) n. 1069/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 ottobre 2009, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale e ai prodotti derivati non destinati al consumo umano e che abroga il regolamento (CE) n. 1774/2002 (regolamento sui sottoprodotti di origine animale) (GU L 300 del 14.11.2009, pag. 1).
  • Regolamento (CE) n. 1099/2009 del Consiglio, del 24 settembre 2009, relativo alla protezione degli animali durante l’abbattimento (GU L 303 del 18.11.2009, pag. 1).
  • Direttiva 2008/120/CE del Consiglio, del 18 dicembre 2008, che stabilisce le norme minime per la protezione dei suini (Versione codificata) (GU L 47 del 18.2.2009, pag. 5).
  • Direttiva 2008/119/CE del Consiglio del 18 dicembre 2008 che stabilisce le norme minime relative alla protezione dei vitelli (versione codificata) (GU L 10 del 15.1.2009, pag. 7).
  • Direttiva 2007/43/CE del Consiglio, del 28 giugno 2007, che stabilisce norme minime per la protezione dei polli allevati per la produzione di carne (GU L 182 del 12.7.2007, pag. 19).
  • Regolamento (CE) n. 396/2005 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 febbraio 2005, concernente i livelli massimi di residui di antiparassitari nei o sui prodotti alimentari e mangimi di origine vegetale e animale e che modifica la direttiva 91/414/CEE del Consiglio (GU L 70 del 16.3.2005, pag. 1).
  • Regolamento (CE) n. 1/2005 del Consiglio, del 22 dicembre 2004, sulla protezione degli animali durante il trasporto e le operazioni correlate e recante modifica delle direttive 64/432/CEE e 93/119/CE e del regolamento (CE) n. 1255/97 (GU L 3 del 5.1.2005, pag. 1).
  • Direttiva 1999/74/CE del Consiglio, del 19 luglio 1999, che stabilisce le norme minime per la protezione delle galline ovaiole (GU L 203 del 3.8.1999, pag. 53).
  • Direttiva 98/58/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, riguardante la protezione degli animali negli allevamenti (GU L 221 dell’8.8.1998, pag. 23).

GIOVANNI ROMANO

È possibile consultare la versione consolidata del Reg. UE 2017/625 al seguente link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:02017R0625-20191214&from=IT

Fonti: https://eur-lex.europa.eu/homepage.html

https://www.adm.gov.it/portale/documents/20182/5328398/Regolamento+UE_18112019.pdf/0dae80d2-9d5b-4d8a-8e35-25ce8bf6c29a

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato le linee guide per le imprese alimentari per garantire la sicurezza, lavorativa ed alimentare, in riferimento al rischio COVID-19.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato in data 7 aprile 2020 le linee guide per le imprese alimentari per garantire la sicurezza, lavorativa ed alimentare, in tempo di pandemia Covid-19.

L’intervento si è reso necessario anche alla luce delle misure che stanno adottando i diversi Paesi per contrastare l’emergenza sanitaria; in molti settori le imprese sono chiuse o operano con modalità di lavoro agile.

A differenza di molti settori in cui le imprese sono state chiuse dai governi nazionali o limitate a lavorare in modalità di smart-working, le imprese alimentari continuano ad operare perché rappresentano settori di necessità primaria o “inarrestabili”.

L’OMS, ha quindi emanato linee guida e indicazioni riguardanti le misure da intraprendere per:

  • garantire la salute dei lavoratori;
  • evitare di fermare le filiere di produzione;
  • mantenere la fiducia dei consumatori nella sicurezza e disponibilità degli alimenti.

L’industria alimentare dispone già di sistemi (FSMS Food Safety Management System – HACCP Hazard Analysis and Critical Control Points) di valutazione e gestione dei rischi per la sicurezza alimentare e di prevenzione dalla contaminazione degli alimenti, come del resto lo stesso Codex Alimentarius già fornisce elementi per implementare i controlli chiave sulla sicurezza alimentare di ogni fase di una filiera alimentare, quindi queste linee guida sono intese a consigliare, allo stato attuale della scienza e della ricerca su questo patogeno emergente e nuovo, misure efficaci a gestire il rischio di contagio sia per l’operatore sia per il consumatore.

Il COVID-19 si trasmette tramite gli alimenti?

Allo stato attuale non ci sono evidenze scientifiche che si possa contrarre infezione da Covid-19 toccando alimenti o imballaggi per alimenti.

Il contagio avviene tramite il contatto da persona a persona e attraverso il contatto diretto con i “droplets” respiratori, cioè le goccioline e l’aerosol generati da una persona infetta, quando tossisce, starnutisce o rilascia comunque parti di saliva su una superficie.
Il Coronavirus non può moltiplicarsi negli alimenti, ma solo all’interno delle cellule vitali di un essere vivente (uomo o animale).

Inoltre, le goccioline di saliva o respiratorie sono troppo pesanti per “viaggiare nell’aria”, per cui cadono per gravità su oggetti e superfici intorno al soggetto che le ha emesse, perciò il possibile contagio potrebbe essere legato al contatto delle mani con una superficie infetta e il successivo passaggio dalle mani alla bocca, al naso o gli occhi, che sono gli ingressi preferenziali del virus nel nostro corpo.

Le ultime evidenze scientifiche mostrano una sopravvivenza del Covid-19 su plastica e acciaio inossidabile (fino a 72 ore), su rame (fino a 4 ore) e sul cartone (fino a 24 ore), quindi l’industria alimentare dovrebbe necessariamente ridurre questo rischio legato a possibili operatori positivi che possano infettare superfici e materiali di imballaggio.

Le misure indicate sono:

  • uso corretto dei dispositivi di protezione individuale (DPI), quali maschere e guanti, efficaci nel ridurre la diffusione di virus e malattie;
  • misure di distanziamento fisico fra le persone (almeno un metro);
  • misure efficaci di igiene e sanificazione (intensificazione delle misure di pulizia e sanificazione lungo l’intera filiera produttiva);
  • corretto lavaggio delle mani, in ogni fase della filiera e soprattutto dopo aver usato i servizi igienici, anche se non ci sono prove di una trasmissione oro-fecale del virus.

I sintomi del COVID-19

Fondamentale in tutto questo discorso è la consapevolezza degli operatori del settore alimentare di riconoscere gli eventuali sintomi di una infezione da Covid-19 e quindi di astenersi decisamente dal recarsi a lavoro. Per operatori si intende tutti coloro che intervengono nella filiera produttiva: personale direttamente a contatto con gli alimenti o le materie prime, gli addetti alle pulizie, addetti alla manutenzione, trasportatori o addetti alle consegne, responsabili di produzione, ispettori ecc.

Compito degli OSA e dei Responsabili di gestione sicurezza alimentare e HACCP è quello di fornire formazione adeguata, anche scritta al proprio personale, che rechi indicazione dei sintomi riconosciuti peculiari di una infezione da Covid-19 conclamata cioè:

  • FEBBRE (temperatura superiore ai 37,5°C);
  • TOSSE (non solo secca, ma qualsiasi tipo);
  • RESPIRO CORTO;
  • DIFFICOLTA’ RESPIRATORIE;
  • AFFATICAMENTO;

Stranamente viene escluso uno dei sintomi più caratteristici che in questi giorni caratterizza i pazienti Covid, cioè la perdita di olfatto e gusto e questo ci fa riflettere sulla continua mutevolezza della situazione e della possibile integrazione futura di queste linee guida.

Prevenzione della diffusione di COVID-19 nell’ambiente di lavoro

Dunque chi ha sintomi e quindi ha un sospetto di infezione da Covid-19 non può presentarsi sul posto di lavoro, ma deve essere informato su come avvisare il medico ed essere seguito nella gestione della sua malattia.

Il problema più grosso rimane però quello dei soggetti asintomatici o presintomatici, cioè coloro che nonostante ospitino il virus, non abbiano alcun sintomo o ancora non lo hanno presentato e questi soggetti sono comunque molto contagiosi, perciò è fondamentale che si operi sempre e comunque in un livello di allerta elevato, applicando corrette pratiche di igiene personale e sanificazione di luoghi e attrezzature e superfici e l’uso corretto dei DPI.

Le buone pratiche igieniche del personale includono:

  • Corretto lavaggio delle mani con acqua e sapone per almeno 20 secondi (seguire i consigli dell’OMS);
  • uso frequente di disinfettanti per le mani a base alcolica;
  • buona igiene respiratoria (coprire la bocca e il naso quando si tossisce o starnutisce; smaltire i tessuti e lavarsi le mani);
  • frequente pulizia e sanificazione delle superfici di lavoro e dei punti di contatto frequenti come le maniglie delle porte;
  • evitare il contatto ravvicinato con chiunque mostri sintomi di malattie respiratorie come tosse e starnuti.

I guanti monouso

I guanti monouso anche se barriera efficace per proteggere la pelle non dispensano l’operatore dal frequente lavaggio delle mani. Assolutamente da evitare è toccarsi la bocca o il naso o gli occhi anche quando si indossano i guanti.

È importante cambiare frequentemente i guanti e lavarsi le mani ad ogni cambio e soprattutto cambiarli dopo aver svolto attività non legate agli alimenti.

L’OMS precisa che un efficace lavaggio delle mani prevede l’uso di acqua corrente calda e semplice sapone e che i disinfettanti per le mani possono essere una misura aggiuntiva efficace ma non sostitutiva del lavaggio delle mani.

Distanziamento fisico

Il distanziamento fisico è molto importante per aiutare a rallentare la diffusione di COVID-19 e le imprese alimentari dovrebbero garantirlo.

Tale distanziamento deve essere di almeno 1 metro.

Nel caso ciò sia inattuabile, per motivi legati alla filiera o alle varie lavorazioni, l’OMS consiglia di:

  • sfalsare le postazioni di lavoro su entrambi i lati delle linee di lavorazione in modo tale che i lavoratori non operino uno di fronte all'altro;
  • fornire DPI completi come maschere facciali, reti per capelli, guanti monouso, tute pulite e scarpe da lavoro anti-sdrucciolo;
  • distanziare le postazioni di lavoro, che possono richiedere una riduzione della velocità delle linee di produzione;
  • limitare il numero del personale in un’area di preparazione alimentare in qualsiasi momento;
  • organizzare il personale in gruppi o gruppi di lavoro per facilitare una ridotta interazione tra i gruppi.

Ipotesi di operatore ammalato

I programmi di prerequisiti (PRP) delle imprese alimentari dovranno includere delle linee guida per la gestione della malattia del personale nei locali dell’impresa alimentari, dalla segnalazione della malattia al ritorno al lavoro a guarigione avvenuta.

Un’adeguata ed anticipata segnalazione della malattia può impedire la trasmissione di COVID-19 nel luogo di lavoro, motivo per cui dovrebbe avvenire per telefono.

Il lavoratore che presenta sintomi da COVID-19 non deve presentarsi al lavoro e consultare un medico; nel caso in cui i sintomi compaiano sul luogo di lavoro, dovrebbe essere immediatamente isolato in un’area identificata e separata dal resto degli operatori.

In attesa del consiglio medico (secondo le linee guida nazionali per la segnalazione di casi sospetti di COVID-19) o di essere rimandato a casa, non dovrà entrare in contatto con persone o superfici. Dovrà inoltre coprire bocca e naso quando tossisce o starnutisce, smaltendo il fazzoletto di carta in un contenitore per rifiuti con coperchio o usare l’incavo del gomito, se non si disponga di fazzoletto.

Tutte le superfici con cui il dipendente infetto è entrato in contatto dovranno essere pulite con disinfettanti a base di alcool in concentrazioni del 70-80% o cloro.

Tutto il personale dovrà lavarsi accuratamente le mani per 20 secondi con acqua corrente calda e sapone dopo ogni contatto con qualcuno che non si sente bene o con sintomi compatibili con l’infezione da COVID-19.

Nel caso in cui sia confermato il contagio di un lavoratore, andranno informati tutti i “contatti stretti” perché possano adottare a loro volta le misure per ridurre al minimo l’ulteriore rischio di diffusione (quarantena a casa per 14 giorni).

Esempi di contatti nell’impresa alimentare sono:

  • qualsiasi dipendente che era in contatto diretto (faccia a faccia) o fisico (che lo abbia toccato);
  • qualsiasi operatore che si trovasse a meno di 1 metro dal caso confermato;
  • chiunque abbia pulito i liquidi corporei senza DPI adeguati (ad es. guanti, tuta, indumenti protettivi);
  • operatori dello stesso gruppo di lavoro o gruppo di lavoro del caso confermato e qualsiasi operatore che vive nella stessa famiglia di un caso confermato.

L’OMS raccomanda la quarantena per 14 giorni di coloro che sono venuti in contatto con il soggetto infetto e nel caso presentino in questo periodo di tempo i sintomi, siano trattati anche loro come casi conclamati. Coloro che non hanno avuto contatti stretti con il soggetto infetto continueranno a lavorare seguendo le norme di igiene suddette. Organizzare gli operatori in piccoli gruppi di lavoro consente proprio di minimizzare i contagi in caso di casi conclamati.

L’OMS raccomanda che un caso confermato possa uscire dall’isolamento (e quindi tornare al lavoro) quando non ci sono sintomi e con due test PCR negativi a distanza di almeno 24 ore.

Trasporto e consegna di alimenti

L’OMS fornisce indicazioni anche per la fase di trasporto e consegna di alimenti:

  • i veicoli non devono essere lasciati incustoditi durante la consegna;
  • i conducenti devono essere dotati di un disinfettante per le mani a base alcolica, un disinfettante e salviette di carta; devono disinfettare le mani prima di consegnare i documenti di consegna (d.d.t.) al personale che riceve gli alimenti;
  • devono essere utilizzati contenitori e imballaggi monouso; diversamente, devono essere implementati adeguati protocolli di sanificazione;
  • I conducenti devono mantenere un elevato livello di pulizia personale ed indossare indumenti protettivi puliti, applicando il distanziamento fisico al passaggio delle consegne;
  • I contenitori di trasporto devono essere tenuti puliti e frequentemente disinfettati;
  • Gli alimenti devono essere protetti dalla contaminazione, anche mediante separazione da altre merci.

Vendita al dettaglio di alimenti

Durante la pandemia da COVID-19 il settore della vendita al dettaglio di alimenti dovrà fronteggiare la più grande sfida nel mantenere i più elevati standard di igiene, nel proteggere i suoi operatori dal rischio di contagio, nel mantenere il distanziamento fisico quando si serve un gran numero di consumatori, nel rimanere aperto e garantire che ogni giorno cibi e bevande raggiungano i consumatori, senza carenze e senza creare mancate disponibilità di generi alimentari fondamentali al normale proseguimento della vita soprattutto in un periodo di lockdown.

Misure come il lavaggio frequente delle mani, l’utilizzo di disinfettanti per le mani e di indumenti protettivi, ed una buona igiene respiratoria ridurranno il rischio di diffusione della malattia.

I datori di lavoro dovranno sottolineare l’importanza di tali pratiche, informando il personale dei sintomi e delle pratiche da seguire, in caso di sintomi.

Il mantenimento del distanziamento fisico nei locali di vendita al dettaglio è fondamentale per ridurre il rischio di trasmissione della malattia.

L’OMS indica le seguenti misure pratiche:

  • Regolamentare il numero di clienti che entrano nel negozio al dettaglio per evitare il sovraffollamento e gli assembramenti;
  • Posizionare cartelli nei punti di ingresso per richiedere ai clienti di non entrare nel negozio in caso di malessere o con sintomi COVID-19;
  • Gestire il controllo delle code con i consigli sulla distanza fisica sia all'interno che all'esterno dei negozi;
  • Fornire disinfettanti per le mani, disinfettanti spray e salviette di carta monouso nei punti di ingresso del negozio;
  • Usare segni distintivi sul pavimento all'interno del negozio per facilitare il rispetto del distanziamento fisico, in particolare nelle aree più affollate, come banconi di servizio e casse;
  • Fare annunci regolari per altoparlante o a voce, per ricordare ai clienti di seguire i consigli di distanziamento fisico e di lavarsi le mani regolarmente;
  • Installare barriere in plexiglas davanti a casse e banconi come ulteriore livello di protezione per il personale;
  • Incoraggiare l’uso di pagamenti senza contatto;
  • Affiggere cartelli con i consigli per la pulizia delle proprie borse della spesa prima di ogni utilizzo;
  • Fornire salviette (o altre forme di sanificazione) ai clienti per pulire le maniglie dei carrelli e dei cestini della spesa oppure incaricare il personale di disinfettare le maniglie dei carrelli della spesa dopo ogni utilizzo;
  • Lavare e sanificare frequentemente gli strumenti come mestoli, tenaglie e supporti per condimenti;
  • Mantenere le porte aperte ove possibile per ridurre al minimo il contatto.

Espositori alimentari aperti in negozi di vendita al dettaglio

I consumatori devono sempre essere avvisati di lavare frutta e verdura con acqua potabile prima del consumo. Sia i clienti che il personale devono osservare rigorosamente le buone pratiche di igiene personale in ogni momento intorno alle aree di esposizione di alimenti.

L’OMS indica le seguenti misure pratiche:

  • Mantenere l’igiene frequente e la sanificazione di tutte le superfici ed utensili a contatto con gli alimenti;
  • Richiedere agli operatori di lavarsi spesso le mani e, se si usano i guanti, questi devono essere cambiati prima e dopo la preparazione del cibo;
  • Richiedere agli operatori di pulire e igienizzare frequentemente i banchi, gli utensili e i contenitori dei condimenti;
  • Rendere disponibile disinfettante per le mani per i consumatori che entrano ed escono dai locali di vendita;
  • Evitare di vendere prodotti da forno non confezionati attraverso banchi self-service. I prodotti da forno devono essere collocati in imballaggi di plastica/cellophane o carta. Se sfusi, devono essere inseriti in sacchetti utilizzando le pinze.

Le mense del personale

Le mense riservate al personale adibito ai servizi essenziali, come appunto la trasformazione e la vendita al dettaglio di alimenti, devono rimanere aperte.

Anche all’interno delle mense devono essere mantenuti elevati standards, secondo le misure indicate dall’OMS:

  • Mantenimento di distanziamento fisico di almeno 1 metro tra operatori, anche nella disposizione dei posti a sedere;
  • Maggiore arco di tempo per il servizio mensa per scaglionare l’accesso al personale;
  • Limitare il più possibile il contatto fisico non essenziale;
  • Affissione di avvisi visibili per il personale per promuovere l’igiene delle mani e l’allontanamento fisico;
  • Procedure di pulizia e sanificazione per attrezzature, locali e superfici di contatto frequente (ripiani, pinze, utensili di servizio, espositori self-service aperti, maniglie delle porte).

L’OMS continua a monitorare la situazione per ogni eventuale novità che possa comportare una integrazione delle attuali linee guida.

Diversamente, le linee guida saranno vigenti per due anni dalla pubblicazione, avvenuta il 7 aprile 2020.

MICHELE CAPPELLI

Fonte: “COVID-19 and food safety: guidance for food businesses: Interim guidance”, 7 April 2020; FAO, WHO.

Nelle migliori cucine, fin dai tempi di Colombo e Marco Polo, il piano di cottura è stato invaso da barattoli di tutti i tipi. Barattoli magici capaci di trasformare la più secca carne alla  piastra,  nel  miglior  piatto  del  secolo.  Barattoli  una  volta colorati, o trasparenti, contenitori di spesso vetro a fiori in rilievo, a volte cupi col tappo a pressione. Ecco signori, questo era il mondo delle spezie vere. Stavano in piccoli scrigni preziosi poiché racchiudevano tesori di incommensurabile valore, senza tempo e da ogni dove. Prodotti della terra raccolti e lavorati a mano e conservati con dei rituali ben precisi, poi tenuti al buio e al fresco e al secco…Beh almeno una volta era così. Quando la curcuma arrivava dall'India raccolta dalla Curcuma longa, una pianta erbacea e perenne, quando lo zafferano era raccolto dai fiori in stimmi   belli,   rossi   essiccati,   tritati   e   profumati,   quando   il peperoncino  era  stato  impilato  sotto  il sole caldo della Calabria e appeso all'aria prima  di  seccare  e  diventare  polvere.

Peperoncino festival Diamante (CS)

Adesso purtroppo non sappiamo più cosa contengono quei barattoli. Si, perché se ci  allontaniamo con  la nostra  lente d’ingrandimento, in maniera esponenziale, dall'antica cucina colorata e dall'odore delle spezie che impregna i banchi di marmo, e guardiamo il mondo così com'è oggi, vedremo degli edifici con locali asettici, componenti in acciaio e l’aspetto del posto simile ad una sala operatoria. Fredde, senza odori, senza sapori e senza sentimenti. Sono i laboratori industriali. Con contenitori d’acciaio e chili e chili di spezie che ci vendono in barattolini costosi ed ermeticamente sigillati.

Particolare della cucina del Castello di Corigliano Calabro

Ma cosa contengono in realtà? Nessuno ce lo dirà mai! Magicamente, al posto della curcuma vera dalle mille proprietà nutraceutiche, è apparsa nei barattolini la curcumina sintetica ottenuta a partire da composti derivati dal petrolio con metodi che prevedono l’uso di acetil-acetone e vanillina, attenzione, anch'essa sintetica!

E invece dello zafferano in polvere sottilissima si vende, il più delle volte, calendula o cartamo a basso costo e magari addizionato al colorante sintetico tartrazina.

Vogliamo parlare poi del peperoncino??Ci si apre un mondo! Il mondo del Sudan.

I coloranti Sudan (I, II, III, e IV) da qualche anno finalmente riconosciuti come cancerogeni e genotossici, sono stati poi banditi in modo assoluto dagli alimenti in tutti i paesi dell’Unione europea con la Decisione 2004/92/CE successivamente integrata ed abrogata dalla Decisione della Commissione 2005/402/CE del 23.05.2005, che è stata la conseguenza di uno dei più grandi allarmi alimentari degli ultimi anni e ha caratterizzato l’attività analitica del peperoncino rosso piccante. Sarà ormai sicuro acquistare peperoncino in polvere? E quando acquistate l’origano? E’ davvero un rompicapo dividere il cisto e le altre erbe che vi addizionano al vero origanum vulgare! Tutte queste adulterazioni delle spezie sono purtroppo ancora possibili poiché molto difficile e dispendioso è effettuare analisi sul prodotto in commercio anche se N.A.S. e IcqRF continuano ogni giorno il loro lavoro d’indagine. Nella curcuma, per esempio, si ricerca la presenza di carbonio-14. L’Abc-American botanical council ha avviato un vero e proprio programma di ricerca delle adulterazioni delle piante utilizzate come spezie e definisce la sostituzione della curcumina naturale con la curcumina sintetica un tipo di attività comune difficile da rilevare nella maggior parte test spettroscopici e analitici. La misurazione dell'isotopo di carbonio, che richiede un sofisticato spettrometro di massa per misurare il 14C nel campione, è il metodo più efficace per determinare se la curcumina è di origine vegetale o di origine sintetica.

Zafferano - Azienda Mallamaci (Motta San Giovanni -RC)

Nel frattempo l’UE si è ancora spinta sui limiti di alcuni contaminanti delle coltivazioni di piante e frutti destinate al consumo umano e delle spezie in Europa (Reg. UE 2018/1516 del 10 ottobre 2018 ) modificando gli allegati II e III del regolamento (CE)n. 396/2005 e restringendo i parametri di alcuni principi attivi che possono essere presenti.

Un consiglio, quindi, potrebbe essere quello di scegliere sempre prodotti meno trattati, magari freschi e da lavorare secondo la tradizione, il meno sminuzzati e impastati possibile e quindi più vicini alla loro origine, più vicini ai “barattoli magici”.

CLAUDIA BUONOFIGLIO

Se vi chiedessero cosa significa per voi dire che un cibo è “sicuro”, che cosa rispondereste?

Alla maggior parte di noi il termine “sicuro” farà sicuramente venire in mente qualcosa di pulito, innocuo, igienicamente non contaminato, salubre, privo di elementi che possano arrecare qualche danno a chi lo ingerisce. Se questa è la prima definizione che vi sovviene, significa che l’aspetto che vi è più familiare della sicurezza alimentare è la Food Safety. In italiano però, il termine sicuro non ha solo l’accezione di “non pericoloso”, ma anche quella di qualcosa di certo, la cui disponibilità deve esserci garantita, qualcosa a cui ci assicurano di avere accesso. Questo secondo significato di sicurezza alimentare fa invece riferimento al campo della Food Security.

Quello appena fatto non è un semplice esercizio lessicale per occupare dieci minuti di un pomeriggio noioso. Rappresenta invece il punto di partenza per comprendere la quasi totalità delle politiche per la gestione del cibo a livello globale. Se la lingua italiana, a dispetto della sua incredibile ricchezza terminologica, ci permette di usare un solo termine per riferirci a entrambi questi due ambiti d’azione, l’inglese questa volta ci batte, differenziando nettamente la sicurezza alimentare in “safety” e “security”.

Vediamo questi concetti più nel dettaglio.

La Food Safety ha come obiettivo la prevenzione delle malattie (o di qualsiasi altro danno) a trasmissione alimentare e riguarda ogni fase della lavorazione, preparazione e conservazione del cibo. I rischi che possono compromettere la Food Safety di un alimento possono essere chimici (come la presenza di allergeni non segnalati o di livelli inaccettabili di pesticidi o metalli pesanti), fisici (ad esempio la presenza di materiale estraneo, come frammenti di vetro o schegge di metallo) o microbiologici (ossia la presenza di virus o batteri patogeni o ancora tossine da essi prodotte). Quest’ultimo aspetto è sicuramente il più centrale negli sforzi per assicurare un’adeguata Food Safety.

Controllare la sicurezza di qualcosa con cui ogni individuo della terra ha a che fare ogni giorno e più volte al giorno, per tutta la vita, non è affatto un’impresa da poco. I numeri che ci descrivono il peso delle malattie a trasmissione alimentare sono eloquenti: ogni anno, una persona su 10 si ammala per aver mangiato cibo contaminato e 420 mila persone muoiono per tossinfezioni alimentari. Queste patologie colpiscono particolarmente i bambini al di sotto dei 5 anni (causando circa 125 mila decessi l’anno), soprattutto nei Paesi della Regione Africana e del Sud Est asiatico. Nella Regione europea si registra un impatto minore, anche se comunque sono più di 23 milioni le persone che ogni anno si ammalano per cibo contaminato e 5000 sono i decessi correlati (2). In Italia, i maggiori responsabili di focolai di malattie trasmesse da alimenti sono riconducibili al batterio Salmonella (responsabile della Salmonellosi), seguono il Norovirus (virus che causa gastroenteriti), il temutissimo Clostridium botulinum (che determina la grave intossicazione alimentare nota come Botulismo), il Campylobacter (batterio che porta alla Campylobatteriosi, la malattia a trasmissione alimentare al momento più riscontrata in Europa) e il virus che causa l’Epatite A, spesso diffuso a causa dell’ingestione di prodotti della pesca crudi contaminati (1).

Abbiamo, quindi, capito che la Food Safety riguarda la salubrità igienico-sanitaria del nostro cibo. Ma se il cibo non c’è? Se il cibo c’è ma non posso permettermelo? Se me lo posso permettere, ma è di scarsa qualità? Ecco che entriamo nel campo della Food Security. Possiamo, infatti, affermare che esiste una Food Security quando tutte le persone, in qualsiasi momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico a cibo sufficiente, sicuro e nutriente, che soddisfi i loro fabbisogni nutrizionali e preferenze alimentari e permetta loro di condurre una vita attiva e sana. Il concetto è però ancora più complesso e riguarda anche le modalità e i mezzi con cui il cibo viene prodotto e distribuito (che devono essere sostenibili per il pianeta), la sua produzione e il suo consumo (che devono essere fondati e governati da valori sociali di giustizia ed equità, così come di morale e di etica), ma anche la sua accettabilità culturale e il rispetto della dignità umana di chi lo produce (5). Utopico? Eppure questo è l’obiettivo che ci dobbiamo porre, o almeno, a cui dobbiamo aspirare.

La Food Security è un concetto strettamente intrecciato anche all’ecologia. La produzione alimentare moderna si è basata su una sempre maggiore intensificazione e capitalizzazione dei processi, la concentrazione delle proprietà in poche mani e una risultante riduzione del prezzo al dettaglio. I punti cardine per l'incremento della resa agricola adottati finora sono stati la selezione genetica delle varietà vegetali e delle razze animali, l’applicazione di nutrienti alle coltivazioni e ai mangimi animali, l’uso massiccio di prodotti fitosanitari (come pesticidi e fertilizzanti) e l'impiego di farmaci veterinari per prevenire epidemie di malattie in gruppi di animali confinati e per favorirne la crescita e la produttività. Si sono, inoltre, sempre più sviluppati modelli di coltivazione per monocoltura e aumentate le dimensioni dei campi e degli allevamenti, con una conseguente riduzione della biodiversità (5). Si pensi che, la stragrande maggioranza del cibo prodotto nel mondo si basa ormai solo su circa 12 specie vegetali e 14 specie animali. La FAO stima che quasi il 75% delle differenti colture agricole sono andate perse nell’ultimo secolo e teme che centinaia delle 7000 razze animali ad oggi registrate nel suo database siano in pericolo di estinzione. Proteggere la biodiversità non è solo una questione ecologica, ma anche economica: man mano che la biodiversità declina, infatti, il rifornimento di cibo diventa più vulnerabile al cambiamento climatico e alla scarsità d’acqua (4). Non solo. L’aumento della capitalizzazione della filiera alimentare ha ridotto il numero delle aziende alimentari locali e di piccole dimensioni e aumentato la concentrazione del commercio nelle mani di un minor numero di operatori: i piccoli produttori si ritrovano così con un mercato surclassato dai grandi produttori con i loro bassi costi. La crescente standardizzazione dei cibi, poi, orientata a rendere più efficiente e funzionale il processo di produzione, distribuzione e preparazione degli alimenti, ha sì giocato un ruolo rilevante nel fornire soluzioni alimentari di più facile accesso, ma spesso a scapito di un corretto equilibrio nutrizionale. I maggiori produttori economici, infatti, tendono a operare su larga scala, spesso oltreoceano, in regioni con un costo relativamente basso delle terre, del lavoro o con protezione ambientale. Con l'avvento della globalizzazione sono perciò aumentate le distanze nei trasporti e per far ciò è stato necessario l'aumento anche della lavorazione degli alimenti abbinato all’uso di additivi. Cruciale per la produzione alimentare è poi l'energia. L'energia (sotto forma di combustibili fossili, elettricità, gas naturale e lavoro umano) non viene utilizzata soltanto per la piantagione, coltivazione e raccolta delle piante, ma anche per la trasformazione e il trasporto di mezzi come pesticidi, fertilizzanti e macchinari e per la lavorazione, confezionamento e distribuzione dei prodotti finali. Intensificando la produzione agricola, si tende ad aumentare la dipendenza delle comunità agricole da fonti d’energia esterne (5). È stato stimato che circa il 95% dei prodotti alimentari richiede l’uso di petrolio nel suo processo produttivo. Secondo i ricercatori della University of Michigan's Center for Sustainable Agriculture, servono in media 7 calorie di combustibile fossile per produrre, lavorare e trasportare ogni caloria di cibo. Se teniamo conto che i combustibili fossili stanno divenendo sempre più limitati, possiamo immaginare quale impatto avrà ciò sulla Food Security, soprattutto in Paesi che fanno pesantemente affidamento sull’importazione di cibo (4). Un altro grande fattore che incide sull'impiego di risorse ambientali in agricoltura è l'acqua. Teoricamente tutte le produzioni alimentari si basano sulla coltivazione di vegetali, che dipendono dall’acqua. Visto, poi, che l’allevamento si basa su mangimi vegetali, ancora più acqua è richiesta per produrre carne. Inoltre, le coltivazioni a resa elevata richiedono più acqua rispetto alle varietà a bassa resa e questa è una delle ragioni per cui il consumo agricolo mondiale di acqua è quasi triplicato dagli anni ’50 del Novecento (5).

Il punto però è che non solo la produzione del cibo ha un impatto sull’ambiente, ma anche viceversa. Molti studi hanno esaminato l’effetto dei cambiamenti climatici sulla produttività delle colture. È certo che la stabilità del rifornimento alimentare è influenzata dalla frequenza e della severità di eventi estremi come cicloni, inondazioni, grandinate o siccità, per non parlare di ciò che non è così improvviso ed estremo, ma lento e logorante, come la perdita di biodiversità, la desertificazione dei suoli, la degradazione ecologica, l'inquinamento di aria e acqua e l’esaurimento delle risorse naturali.

Da tutto ciò possiamo capire come la sfida di perseguire gli obiettivi della Food Security sia tutt’ora ardua. Ad oggi, circa 795 milioni di persone nel mondo non hanno cibo a sufficienza. Va detto che questo numero è diminuito di 216 milioni dal 1990, ma stiamo comunque ancora parlando di circa 1/9 della popolazione mondiale. È difficile che noi, nascosti dietro il nostro frigorifero pieno, ci pensiamo spesso: la stragrande maggioranza delle persone che soffrono la fame vive nei Paesi in via di sviluppo, dove ben il 12,9% della popolazione è denutrito. In particolare, l'Africa Sub-sahariana è la regione al mondo dove questo problema è più presente: si pensi che una persona su quattro lì soffre di denutrizione (3).

C’è sicuramente qualcosa di sbagliato nel fatto che metà del mondo non ha soldi per procurarsi il cibo e l’altra metà li spende per capire come mangiare di meno. Se risolvere questo paradosso rimane ad oggi un traguardo a dir poco complesso da raggiungere, fermarsi perlomeno a rifletterci ne rappresenta sicuramente la linea di partenza.

ELENA FERRERO

Fonti

(1) “EU summary report on zoonoses, zoonotic agents and food-borne outbreaks 2016” dicembre 2017, European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) e Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) (http://www.epicentro.iss.it/problemi/tossinfezioni/ReportEcdcEfsa2017.asp)

(2) “Estimates of the global burden of foodborne diseases” dicembre 2015, Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)

(3) “State of Food Insecurity in the World”, FAO, 2015.

(4) Hanning I. B., O’Bryan C. A., Crandall P. G., Ricke S. C. (2012) “Food Safety and Food Security”. Nature Education Knowledge 3(10):9 (https://www.nature.com/scitable/knowledge/library/food-safety-and-food-security-68168348)

(5) “Food and health in Europe: a new basis for action”. WHO Regional Publications, European Series, No. 96, 2004.

Fin dai tempi più antichi l’uomo ha associato alle piante ed ai loro estratti una capacità curativa (1).

Tra le principali piante utilizzate fin dall'antichità a scopo terapeutico possiamo ricordare la salvia, il papavero, l'assenzio e in particolare l'aglio le cui origini, ancora oggi, sembrano incerte. Ben più note, invece, sono le sue capacità benefiche: antibiotico, antisettico, balsamico, antipertensivo. Questa vera panacea presenta comunque uno svantaggio: l’odore antisociale che lascia a chi lo assume. I responsabili della formazione del tipico odore dell'aglio sono composti solforati contenuti nella pianta, in particolare l'allicina la quale viene liberata quando l'enzima allinasi, normalmente contenuto nel vacuolo, agisce sull'alliina, un composto incolore ed insapore. Tutto ciò accade ogni volta che l'aglio viene “danneggiato”, per esempio durante la masticazione, il taglio, oppure la spremitura; questo è il motivo per cui, invece, gli spicchi interi non hanno odore. Le problematiche dell'aglio relative al cattivo odore possono essere risolte attraverso un processo di fermentazione che vede coinvolti i batteri L. Plantarum e Weissella. Si tratta di un processo che permette di ottenere, a partire dall'aglio fresco, il cosiddetto Aglio nero (Black Garlic), così chiamato in quanto, durante il processo di fermentazione che avviene a temperature e umidità controllate, ne viene modificato il colore (da chiaro a scuro), oltre che il sapore (da amaro a dolce) e la consistenza (da duro a gommoso).

Questo processo di fermentazione sembra andare a modificare anche il contenuto nutrizionale dell'aglio; si assiste, difatti, ad un aumento del contenuto degli zuccheri, dei polifenoli, dei flavonoidi, mentre a diminuire sono i fruttani essendo ampiamente utilizzati durante lo stesso processo di fermentazione.

La durata del trattamento varia in funzione della varietà dell’aglio, del produttore e dei suoi obiettivi, ma solitamente i bulbi di aglio fresco vengono lasciati fermentare per 1 mese circa, dopodiché si lasciano ossidare all’aria per altri 45 giorni.

Secondo un ampio numero di studi scientifici, gli estratti ottenuti dal Black Garlic sono caratterizzati da proprietà antiossidanti, antiallergiche, antidiabetiche, antiinfiammatorie ed antitumorali (2). In particolare, l'estratto metanolico dell'aglio nero e le frazioni da esso ottenute sembrano mostrare effetti antiproliferativi ed epatoprotettivi. Ciò è stato dimostrato attraverso studi condotti in vitro utilizzando la linea cellulare di adenocarcinoma epatico (HepG2). Nello specifico, tramite saggi di vitalità cellulare, è stato dimostrato l'effetto antiproliferativo indotto dal trattamento con l'estratto metanolico dell'aglio nero; attraverso il saggio dell'ossido nitrico, invece, è stato dimostrato che la concentrazione di ossido nitrico (NO) rilevata nel mezzo cellulare aumenta del 36% solo a 2 mg/ml di estratto. Si tratta di un risultato di grande interesse in considerazione delle molteplici azioni fisiologiche (vasodilatazione, trasduzione dei segnali neuronali) e patologiche (apoptosi) che questo secondo messaggero è in grado di esercitare in diversi tessuti. Infine, attraverso il saggio colorimetrico Oil Red O (ORO) è stata evidenziata una diminuzione dell'accumulo di goccioline lipidiche nel citoplasma delle cellule HepG2 trattate con l'estratto metanolico rispetto alle cellule HepG2 non trattate.

Le differenti proprietà biologiche dell'aglio nero, e in particolare dell'estratto metanolico, indicano che rappresenta un alimento potenzialmente utilizzabile per la salute umana al fine di poter contrastare “naturalmente” diverse patologie alle quali l'uomo può andare incontro.

Ulteriori studi sono comunque necessari al fine di individuare e caratterizzare i composti responsabili delle attività biologiche osservate e chiarire i meccanismi molecolari alla base di tali attività.

ROSY MAUCIONE

 

FONTI:

  • Burt S.

Essential oils: their antibacterial properties and potential applications in foods- -a review. Int J Food Microbiol. 2004; 94:223-253.

  • Kimura S., Tung Y.C., Pan M.H., Su N.W., Lai Y.J., Cheng K.C.

Black garlic: A critical review of its production, bioactivity, and application. J Foof Drug Analysis. 2017; 25:62-70.

Ci sono tantissimi buoni motivi per seguire le stagioni nelle nostre scelte alimentari.

Prima di tutto, spiegare nel dettaglio l’esatta stagionalità del carciofo ci conferisce quell’aria da “contadino, scarpe grosse e cervello fino”, che serve sempre a far bella figura. In secondo luogo, chi preferirebbe quelle palline rosse insapori, che a dicembre chiamano pomodori, rispetto ai succosi e saporiti cuore di bue che troviamo d’estate? Se per voi l’aspetto organolettico non è una motivazione sufficiente, lo sarà senz’altro l’aspetto nutrizionale. I vegetali che giungono a maturazione completa con i tempi e le temperature adeguati sviluppano tutte quelle sostanze (leggi: vitamine, minerali, acidi organici, fitonutrienti, macronutrienti e via dicendo) che non solo servono alla pianta, ma sono anche benefiche per il nostro organismo e fondamentali per una dieta sana ed equilibrata. Se invece la maturazione è “forzata” o addirittura non raggiunta, la pianta non svilupperà tali sostanze, o comunque non nelle quantità che ha normalmente. A questo proposito, qualcuno di voi si chiederà: se un vegetale viene raccolto in un paese dove in questo momento “è stagione” vuol dire che è comunque giunto a maturazione, che cosa cambia alla fine? In questo caso il punto è la freschezza: è facile intuire che i vegetali che giungono da altri paesi o continenti sono sottoposti a viaggi di giorni e giorni e molti di questi vengono conservati a lungo in celle frigo. I micronutrienti presenti negli alimenti sono piuttosto fragili (chi più chi meno) e variazioni di temperatura, di luce, urti, il passare stesso del tempo portano a una perdita significativa in termini di valore nutrizionale. Dunque, generalmente, meno tempo è passato da quando un vegetale è stato raccolto a quando è giunto sulla nostra tavola, meglio è. Certamente, non tutti abbiamo il lusso di avere sotto casa un rigoglioso orto, dunque è bene fare scelte oculate nei nostri acquisti. Ulteriore aspetto nutrizionalmente positivo nel seguire la stagionalità dei cibi: la varietà. Il fatto che pochi cibi crescano indifferentemente tutto l’anno, ci obbliga a modificare le nostre scelte e la gamma di piatti preparati quasi ogni mese. E ciò è davvero un toccasana per la nostra salute. Non esiste, infatti, l'alimento "completo" o "perfetto" che contenga tutte le sostanze indispensabili alla nostra salute e che sia quindi in grado di soddisfare da solo le nostre necessità. Perciò, il modo più semplice e sicuro per garantirci l'apporto di tutti gli elementi nutritivi è quello di variare il più possibile le nostre scelte alimentari. Così facendo, non solo evitiamo il pericolo di squilibri nutrizionali e delle loro conseguenze sulla nostra salute, ma soddisfiamo anche maggiormente il nostro palato, combattendo la monotonia dei sapori. Inoltre, variare sistematicamente e razionalmente le scelte dei cibi significa ridurre un altro rischio che può derivare da abitudini alimentari monotone, vale a dire l’ingestione ripetuta e continuativa – mangiando sempre gli stessi alimenti – sia di sostanze estranee eventualmente presenti, sia di composti "antinutrizionali" in essi naturalmente contenuti. Per di più, non richiedere al mercato sempre gli stessi prodotti (e le stesse varietà dello stesso prodotto, per giunta) fa sì che incentiviamo a proteggere l’incredibile biodiversità dei vegetali italiani. Se anche l’aspetto nutrizionale non vi sprona a seguire il calendario, perché non parlare del portafogli? Sì perché chi mangia di stagione risparmia! Infatti, nel prezzo finale della verdura e della frutta fuori stagione che oggi abbonda nei reparti del supermercato verranno necessariamente inclusi maggiori costi produttivi (ad esempio per gli strumenti necessari a crescere un vegetale in un clima diverso dall’usuale, come maggiori prodotti fitosanitari o serre riscaldate), maggiori costi di conservazione (come quelli legati alle celle frigo nelle quali i prodotti fuori stagione perdurano per più tempo) e maggiori costi di trasporto (che sia da una regione diversa d’Italia, da un Paese estero o addirittura da un altro continente). E tutto ciò non si ripercuote solamente sulle nostre tasche, ma anche sul nostro amato Pianeta, in termini di energia (non pulita) consumata e CO2 prodotta. Vediamo dunque cosa ci riserba ogni stagione!

Dato che siamo già ad aprile, iniziamo con la primavera. Il risveglio della natura ci regala i saporiti asparagi, ricchi di carotenoidi e acido folico, i cetrioli, i fagiolini, gli zucchini, le melanzane, i ravanelli e i carciofi, quest’ultimi già presenti dall’inverno, con la loro importante ricchezza di fibra, potassio e acido folico. Se una ciliegia tira l’altra è meglio che lo faccia in questa stagione, perché sarà più ricca di carotenoidi, antocianine e vitamina C. Iniziano a esserci anche meloni e angurie, più caratteristici però dell’estate. Protagoniste della primavera (ma anche dell’estate) sono le gustose fragole, con il loro prezioso apporto di carotenoidi, antocianine, quercetina e vitamina C. Fra inverno e primavera troviamo il pompelmo, mentre a cavallo fra primavera ed estate spuntano le arancioni albicocche, non a caso campionesse di carotenoidi, ma anche di potassio e vitamina C.

Il tripudio della vegetazione continua con l’estate. Inizia qui la raccolta dell’aglio, immancabile nella dieta Mediterranea, con il suo caratteristico odore e sapore dato dai benefici composti solforati: l’aglio sarà “di stagione” anche nel successivo autunno, ma possiamo considerarlo un vegetale annuale perché la conservazione per tutto l’anno non ne altera le proprietà. Insieme a lui, come non ricordare le cipolle, maestre dei nostri soffritti e fonti della benefica quercetina? Ma il protagonista indiscusso della cucina Italiana è senz’altro il pomodoro, re dell’estate con il suo potente e rosso licopene. Già presenti in primavera, ricordiamo i saporiti peperoni, fra le verdure più ricche di vitamina C. Proseguono i cetrioli, i fagiolini, gli zucchini, i ravanelli e le melanzane, il colore di questi ultimi dato dalle benefiche antocianine. Già dalla primavera iniziamo a vedere pesche e susine, ma è l’estate la loro stagione predominante. Stesso discorso vale per melone e anguria, fedeli compagni delle nostre afose giornate estive. Estivi sono anche i frutti di bosco: more, mirtilli, lamponi e ribes non sono solo belli a vedersi sulle nostre crostate, ma anche estremamente benefici con la loro ricchezza di fibra, magnesio, vitamina C e antocianine. D’estate si caricano di frutti anche le rigogliose vigne: approfittiamone, l’Italia è il Paese al mondo dove si produce più uva, la cui vendemmia prosegue anche nell'autunno.

Rimaniamo quindi in tema e parliamo dei vegetali che ci regala questa colorata stagione. Protagonisti dell’autunno sono i due frutti bianchi, già presenti in estate e che proseguiranno anche in inverno: le pere e le mele, che veramente ci tolgono il medico di torno, perché fonti preziose di fibra, vitamina C e quercetina. Ma abbiamo anche un simpatico frutto arancione: il dolce caco, che ha questo colore proprio per la sua ricchezza di carotenoidi. Come non citare poi l’autunnale castagna? Racchiusa nel suo riccio spinoso, non è ricca d’acqua come il resto della frutta, ma d’amido, ed è per questo che se ne ricava anche una farina con cui preparare piatti prelibati. Col loro odore non esattamente piacevole, ci accompagneranno per tutto l’autunno e l’inverno successivo i bianchi cavolfiori, ricchi di fibra, potassio e vitamina C e i verdi broccoli, fonti preziose non solo di fibra, potassio e vitamina C, ma anche di carotenoidi, vitamina K e dei potenti composti anticancro della famiglia delle Crucifere, i glucosinolati. Inizieranno poi a esserci anche agrumi e kiwi, ma anche zucche, sedano, cardi, cicoria e radicchio, i quali però saranno i protagonisti dell’inverno. Super autunnali sono invece i porri, gustosi e ricchi di fibra e potassio, e i fichi, fonti eccezionali di carotenoidi, antocianine e magnesio.

Concludiamo la nostra carrellata di sapori con quelli della fredda stagione invernale. A scaldarci saranno sicuramente la vasta gamma di minestre, minestroni, creme e zuppe a base di Crucifere, di cui fanno parte i già citati cavolfiore e broccolo, ma anche i cavoli e le verze, protagonisti veri dell’inverno. Il cavolo, in particolare, ci apporterà dosi massicce di vitamina C (se consumato crudo però!), ma anche di vitamina K e, i già citati, glucosinolati. Se la vitamina C delle Crucifere non vi bastasse, perché non attingere a quella dei molto più famosi agrumi, re dell’inverno. Arance, limoni, mandarini e mandaranci, per non parlare del peloso kiwi saranno un toccasana per la nostra salute. Concludiamo l’inverno in bellezza con rape, sedano, cardi e radicchio, quest’ultimo fonte eccellente di fibra e carotenoidi, come pure l’arancione zucca e le sue gustose creme.

 

Per non sbagliarvi, tenete a mente che ci sono vegetali che sono “di stagione” praticamente tutto l’anno. Con questi non farete mai brutta figura. Parliamo delle biete e degli spinaci, che a Braccio di Ferro non facevano solo crescere i muscoli, ma apportavano soprattutto fibra, potassio, vitamine C e K, acido folico e gli immancabili carotenoidi. Parlando di carotenoidi non possiamo dimenticare la carota, che il simpatico Bugs Bunny può sgranocchiarsi tutto l’anno. Stesso discorso per patate, legumi secchi, finocchio ed erbe aromatiche. Concludiamo con un vegetale immancabile sulla tavola degli italiani, ricco di carotenoidi, vitamina K, potassio, vitamina C e acido folico: la nostra cara insalata, il contorno che sta bene con tutto e che ci salva tutte le cene improvvisate.

Questo articolo non vuole essere una lezione sulle stagioni, ma un invito a essere curiosi sulla ricchezza che ci offre la Natura. In un mondo dove i bambini credono che la melanzana nasca già sotto forma di parmigiana, proviamo a insegnar loro da dove proviene il cibo, quando e come nasce, quale duro lavoro c’è dietro. Raccontiamo loro la storia di ogni singolo boccone e in futuro saranno consumatori consapevoli.

ELENA FERRERO

Fonti:

  • l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. LINEE GUIDA PER UNA SANA ALIMENTAZIONE ITALIANA, revisione 2003.
  • verduredistagione.it
  • slowfood.it

La nascita di un bebè è senza dubbio un’emozione intensissima destinata a diventare uno dei momenti più belli della vita di una persona. Ma, chi si occupa di igiene sa che oltre all’affetto il bimbo ha bisogno di assumere delle sostanze già dai primi istanti di vita. Questa premessa per introdurre l’articolo e capire, anche se sommariamente, perché alcuni alimenti mostrano una più o meno intensa attività antimicrobica.

Ritornando al discorso dei neonati, la lattoferrina è una delle prime sostanze che difenderanno il piccolo da infezioni batteriche e fungine.

La lattoferrina è una proteina mai satura di ferro. Si trova appunto nel latte ma anche in altre secrezioni mucose come la saliva e le lacrime.

L’attività antimicrobica è dovuta alla sua affinità per lo ione ferrico (Fe3+) e, visto che alcuni batteri richiedono ferro per potersi moltiplicare, la lattoferrina lo sottrae all’ambiente di crescita impendendone quindi la proliferazione.

Un’altra molecola contenuta nel latte materno, ed anche in grandi quantità nelle uova, è il lisozima.

La sua azione antimicrobica è data dal fatto che ha capacità di idrolizzare i peptoglicani presenti nella parete batterica, in particolare Gram positivi, fino alla loro lesione.

Viene utilizzata anche nella produzione di vini, birre e formaggi. Grazie alla sua attività enzimatica, il lisozima è capace di modulare e controllare lo sviluppo di fermentazioni microbiche indesiderate.

In quanti di noi poi si sono trovati a fronteggiare la “potenza” dell’aglio? E quanti si sono chiesti il perché "puzzi" solo da frantumato o tritato e non da integro?

Quando schiacciamo un aglio una sostanza al suo interno ovvero la alliina entra in contatto con un enzima: l’allinasi. L’incontro di queste due sostanze fa in modo che si sviluppi una molecola con forti proprietà antimicrobiche: l’allicina.

L’allicina è un composto solforganico con proprietà antibatteriche. Gli effetti non sono stati del tutto chiariti. Si sa che l’allicina è in grado di interagire con i gruppi sulfidrilici, inibendo l’attività di enzimi o proteine importanti per la crescita batterica. Gli estratti di allicina vengono utilizzati insieme ad altri composti per potenziare l’azione antibiotica.

Sono tantissime le sostanze che ritroviamo negli alimenti e che hanno proprietà antisettiche.

Nel campo delle spezie è davvero facile spaziare ed approfondire il discorso.

Si va dalle proprietà anestetiche e disinfettanti dell’eugenolo, un composto aromatico contenuto negli oli essenziali del chiodo di garofano per arrivare al timolo che insieme al carvacrolo, contenuto nel timo e nell’origano, sono in grado di rallentare l’assorbimento di glucosio da parte della cellula microbica.

Conoscere bene gli alimenti, le spezie e le loro proprietà aiuta a farne un uso sicuro e utile per il nostro benessere.

ANTHONY SCORZELLI

Prima sì, poi no, poi fa male, poi fa bene, io sono pro, tu sei contro, spiegami meglio la storia della rava e della fava. Consumatori, smettiamola di farci trasportare dalle emozioni sull’olio di palma. Proviamo a usare la razionalità.

Prima di tutto molti pensano che l’olio di palma sia uscito fuori solo negli ultimi tempi. Vi stupirà scoprire invece che l’uomo utilizzava questo grasso a scopi alimentari già 5.000 anni fa. Sono, infatti, state ritrovate testimonianze a questo riguardo risalenti alla civiltà Egizia (4). Sarebbe divertente scoprire come si scrivesse coi geroglifici “senza olio di palma”.

È vero, tuttavia, che la coltivazione della palma da olio (Elaeis guineensis) ha avuto una rapidissima espansione solo in questi ultimi decenni in seguito all’enorme richiesta da parte delle industrie alimentari. L’area coltivata a questo scopo dai due maggiori produttori, Indonesia e Malesia, infatti, è raddoppiata dal 1995 al 2005 e oggi l’olio di palma rappresenta ben il 65% di tutti gli oli vegetali commercializzati nel mondo (2).

Anche se lo chiamiamo olio, l’olio di palma è solido a temperatura ambiente (quindi particolarmente adatto alla preparazione di prodotti dolciari), un po’ come il burro, lo strutto, la margarina, il burro di cacao, ecc. Questo perché la sua composizione in acidi grassi è molto più simile a quella del burro di tanti altri grassi vegetali. Circa la metà (49,3 %) di tutti i suoi grassi, infatti, sono saturi (il burro, per intenderci ne ha il 51,3%) (1).

Cos’ha però di diverso rispetto al burro (croce di tutti i nutrizionisti negli anni ’90)? Visto che non è di origine animale (con gande gioia dei vegani), non contiene il – tanto temuto – colesterolo. In pratica, una margarina, ma senza i - dannosissimi – acidi grassi trans.

Quali migliori notizie per le industrie alimentari! Usiamolo tutti in massa e scriviamo a caratteri cubitali “solo grassi vegetali”, “non contiene grassi idrogenati”, “privo di colesterolo”. Tutto legittimo, tutto giusto. Ma ecco il primo esempio in cui noi consumatori ci lasciamo trasportare più dalle emozioni che dalla razionalità. È interessante come anche le battaglie alimentari seguano le mode. Questo era il periodo di “abbasso il burro che ci alza il colesterolo, viva i grassi vegetali”. Peccato che, come abbiamo detto, l’olio di palma - che ha sostituito prima il burro e poi la margarina nella preparazione dei dolci industriali - abbia la stessa quantità di grassi saturi del burro, e che proprio l’eccesso di grassi saturi nella dieta sia uno dei principali responsabili dell’aumento del colesterolo LDL (quello cattivo), molto più che il colesterolo stesso che ci mangiamo.

Ma attenzione, le mode alimentari sono tanto trascinanti quanto volubili e la situazione si è velocemente capovolta. In pochi anni l’olio di palma è passato da essere miniera d’oro per i paesi produttori e manna dal cielo per le industrie, al peggior veleno mai esistito per il consumatore. Ma ancora una volta il marketing coglie la palla al balzo e incoraggia le isterie collettive. Non vi piace l’olio di palma? Perfetto, togliamolo e puntiamo tutta la nostra pubblicità su questo! Ed ecco spuntare su ogni sacchetto e confezione, a caratteri cubitali, “SENZA OLIO DI PALMA”.

Nel 2016, infatti, uno studio dell'EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) fa emergere che, se portato a temperature superiori a 200 °C, l’olio di palma (insieme al suo parente molto meno sano, l’olio di palmisti) produce sostanze (2 e 3-3- e 2-monocloropropanediolo, MCPD, e relativi acidi grassi) che, ad alte concentrazioni, sono genotossiche, ovvero possono mutare il patrimonio genetico delle cellule, e dunque cancerogene (3). Apriti cielo.

Anche a questo riguardo, l’invito è alla razionalità. Prima di tutto si tenga in considerazione che anche altri olii vegetali sviluppano queste sostanze nocive, anche se in quantità inferiori. Inoltre, proviamo a non usare due pesi e due misure. Molte altre sostanze alimentari rientrano nella stessa categoria di rischio (come la caffeina o l'alcol). Mi sembra che nessuno abbia sollevato una tale crociata perché l’alcol è cancerogeno. E invece no, imbracciamo i forconi e andiamo tutti a pretendere che vietino l’olio di palma! Un attimo, posiamo momentaneamente il forcone e fermiamoci a riflettere sul fatto che in natura le sostanze potenzialmente cancerogene ad alte concentrazioni sono moltissime. Ciò che non ci è facile comprendere è che il rischio è legato alla frequenza e quantità di consumo: non esiste il rischio zero. Come per l’alcol, un consumo moderato di olio di palma non comporta un rischio elevato e rientra in quello che gli epidemiologi considerano il “rischio generale legato all'ambiente esterno e agli stili di vita” (1).

Il gruppo di esperti scientifici dell’EFSA sui contaminanti nella catena alimentare (CONTAM) ha dichiarato, riguardo a queste sostanze, che non intende stabilire un livello di sicurezza da non superare, perché sarebbe scientificamente scorretto. Intende piuttosto emanare un invito a cercare di non abusarne (considerando la grande diversità delle fonti possibili, comprese le fritture casalinghe con olio di mais o girasole, che facilmente raggiungono le elevate temperature necessarie alla formazione dei composti tossici). Vi è inoltre un’ulteriore rassicurazione sul fatto che è difficile che concentrazioni pericolose siano raggiunte con la normale alimentazione. L’unica attenzione particolare andrebbe posta sui neonati nutriti esclusivamente con latte artificiale, di cui l'olio di palma è spesso uno degli ingredienti, poiché essi hanno dosi tollerabili inferiori a quelle di noi adulti. A questo proposito, comunque, vi sono dall’EFSA altre rassicurazioni: gli studi hanno dimostrato che negli ultimi anni il contenuto di queste sostanze tossiche nei prodotti si è notevolmente ridotto, poiché le industrie, su base volontaria, hanno modificato i propri processi produttivi (3).

Altra questione di fuoco: l’impatto ecologico. Per produrre tutto l'olio di palma richiesto dall'industria alimentare, infatti, i Paesi produttori (come Indonesia, Cambogia e Malesia) hanno sacrificato altri tipi di colture e abbattuto ettari ed ettari di foresta tropicale, e con essi anche tutta la strabiliante biodiversità vegetale e animale di quei luoghi. Il problema è anche sociale: i contadini più poveri hanno man mano convertito le loro coltivazioni in palme da olio, più redditizie ma poco utili per nutrire adeguatamente le popolazioni locali. La Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo), nata nel 2004, ha negli anni stabilito diversi protocolli per rendere "sostenibile" questa coltivazione. Tuttavia, alcune organizzazioni, come Greenpeace e la Environmental Investigation Agency, hanno criticato l'organizzazione per la mancanza di chiarezza nella definizione dei criteri e, soprattutto, per la continua opera di deforestazione attuata da soci della stessa Rspo (2). Altri standard di sostenibilità, come la norma internazionale sulla sostenibilità (ISCC) o la Rainforest Alliance hanno anche un sistema di certificazione per l'olio di palma sostenibile. Anche Indonesia e Malesia hanno sviluppato i propri standard per l'olio di palma sostenibile certificato. I rispettivi Indonesian Sustainable Palm Oil (ISPO) e Malaysian Sustainable Palm Oil (MSPO) standard (6). Diverse industrie affermano di usare solo olio di palma proveniente da coltivazioni rispettose dell'ambiente, ovvero ottenute da aree già piantate a palme, tuttavia questo non è sufficiente a coprire l’attuale fabbisogno. Altre industrie propongono di compensare le zone destinate alla palma da olio, creando aree forestali in altri punti: tale misura è però indubbiamente insufficiente, poiché è praticamente impossibile ricreare artificialmente da zero un habitat così complesso (1).

Anche in questo caso però, c’è l’altra faccia della medaglia da considerare. Fra tutti gli olii vegetali, la palma da olio è quella con la produttività maggiore (2): in poche parole, se ne produce molta di più a parità di area coltivata. Se quindi pensassimo di sostituirla completamente con altre tipologie di olio per ridurre l’impatto ambientale, otterremmo l’effetto opposto. Inoltre, visti gli alti livelli di occupazione diretta e indiretta che consente nei paesi in cui si produce, è difficile pensare che in quelle economie si possa rinunciare a una coltivazione così importante.

Dunque il discorso è molto più articolato e complesso di quanto possano racchiudere i semplici slogan che animano l’opinione pubblica.

Prima di pronunciare la frase “L’olio di palma fa male, alla salute e all’ambiente” è bene considerare che l’espressione “fa male tout-court è proprio quella che non si dovrebbe mai utilizzare per parlare di un alimento.

ELENA FERRERO

 

FONTI

  1. airc.it
  2. focus.it
  3. efsa.europa.eu
  4. oliodipalmasostenibile.it
  5. ISS 26341/SVSA-AL.22 Risposta al foglio del 09/90/15 n. 34869-P
  6. palmoilandfood.eu

Il primo mese dell’anno è già trascorso e per gli operatori del settore alimentare si accorciano i tempi per adeguarsi a quanto prevede il Regolamento UE 2158/2017, che istituisce misure di attenuazione e livelli di riferimento per la riduzione della presenza di acrilammide negli alimenti.

A partire dall’11 aprile 2018 si applicherà il Regolamento citato, che all’art.1 c2 riporta i prodotti che rientrano nel campo di applicazione: patate fritte tagliate a bastoncino, altri prodotti tagliati fritti e patatine (chips), ottenuti a partire da patate fresche; patatine, snack, cracker e altri prodotti a base di patate ottenuti a partire da pasta di patate; pane; cerali per la prima colazione (escluso il porridge); prodotti da forno fini: biscotti, gallette, fette biscottate, barrette ai cereali, scones, coni, cialde, crumpets e pane con spezie (panpepato), nonché cracker, pane croccanti e sostituti del pane. In questa categoria per "cracker" si intende una galletta secca (prodotto da forno a base di farina di cereali); caffè: caffè torrefatto; caffè (solubile) istantaneo; succedanei del caffè; alimenti per la prima infanzia e alimenti a base di cereali destinati ai lattanti e ai bambini nella prima infanzia, quali definiti nel Reg. UE n. 609/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio.

L’acrilammide è una sostanza genotossica e cancerogena ed è considerata un pericolo chimico nella catena alimentare. Questa sostanza si forma a partire dai costituenti: l’aminoacido asparagina e gli zuccheri naturalmente presenti in determinati alimenti quando vengono trattati termicamente a temperature superiori a +120°C e con un basso grado di umidità.

Questa sostanza tossica si forma soprattutto negli alimenti ricchi di carboidrati cotti al forno o fritti, costituiti da materie prime che contengono i precursori dell’acrilammide. Si tratta in particolare di cereali, patate e i chicchi di caffè.

Nel 2015 l’EFSA ha adottato un parere sull’acrilammide negli alimenti, confermando le conclusioni di valutazioni precedenti ed evidenziando la preoccupazione per la diffusione di questo contaminante negli alimenti di uso comune, molto apprezzati in particolare dai bambini che sono anche i soggetti più esposti, rispetto agli adulti, in base al loro peso corporeo.
Come possono gli operatori del settore garantire ai propri consumatori dei prodotti con la minore presenza possibile di acrilammide?
Il Regolamento fornisce delle indicazioni precise, suddivise per categorie di prodotto.
Occorre indubbiamente lavorare sulla prevenzione, sulle buone prassi, analizzare il livello di formazione e consapevolezza del personale e prevedere degli interventi mirati sulla gestione di questi aspetti specifici.
Ma non basta. Il Regolamento prevede l’obbligo di verificare l’efficacia delle misure preventive mediante campionature ed analisi, ad eccezione degli operatori del settore alimentare che, pur producendo preparazioni rientranti nel campo di applicazione del regolamento, svolgono attività di vendita al dettaglio e/o riforniscono direttamente solo esercizi locali di vendita al dettaglio. Per questa categoria di OSA è richiesto il rispetto delle misure di attenuazione di cui all’allegato II, parte A.
Per gli OSA che operano in realtà più complesse (“…che operano in impianti sotto controllo diretto e nel quadro di un marchio o di una licenza commerciale, come parte o franchising di un'azienda interconnessa di più ampie dimensioni e secondo le istruzioni dell'operatore del settore alimentare che fornisce a livello centrale i prodotti alimentari di cui all'art. 1, paragr. 2…”), si applicano le misure di attenuazione supplementari di cui all'Allegato II, parte B.
Le misure di attenuazione di cui all’allegato II parte A si basano essenzialmente sulla corretta prassi.
Analizziamo, a titolo di esempio, le patate fritte a bastoncino e altri prodotti fritti in olio da patate tagliate.
Al fine di ridurre la formazione di acrilammide si attuano una serie di misure che si basano su:
• Una selezione più accurata della materia prima (per l’utilizzo di patate con un basso tenore di zuccheri)
• Uno stoccaggio delle patate ad una temperatura superiore a +6°C
• Un’istruzione operativa specifica da seguire prima del processo di frittura tra quelle elencate di seguito:
i) lavaggio e ammollo delle patate per 30 minuti fino a 2 ore in acqua fredda, risciacquo e frittura
ii) immersione delle patate in acqua calda, risciacquo, frittura
iii) sbollentamento delle patate
• Una frittura condotta utilizzando oli e grassi che consentono di friggere con maggior rapidità e mantenendo la temperatura di frittura inferiore a +175°C. Occorre inoltre garantire una schiumatura frequente per eliminare briciole e frammenti.
Sono disponibili delle guide cromatiche che forniscono indicazioni sulla combinazione ottimale di colore e bassi livelli di acrilammide e che devono essere esposte in modo visibile nei locali in cui il personale prepara gli alimenti.
Come anticipato, gli OSA che operano in attività più complesse attuano delle misure supplementari.

Sempre in merito alle patate fritte a bastoncino e altri prodotti fritti in olio ottenuti da patate tagliate, il Regolamento prevede che gli OSA garantiscano il rispetto delle condizioni di stoccaggio fornite dai fornitori, l’utilizzo di friggitrici calibrate (per monitorare i tempi di trattamento), controllino il tenore di acrilammide nei prodotti finiti per verificare l’efficacia delle azioni intraprese.

ROBERTA DE NOIA