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Il mercato del biologico non conosce crisi: crescono le superfici coltivate con il metodo biologico e il numero degli operatori che scelgono di convertire i propri terreni in bio, a fronte di una domanda sempre maggiore da parte dei consumatori. I dati Ismea-Nielsen sulle vendite di prodotti biologici presso la grande distribuzione, relativi al primo semestre 2017, confermano l’apprezzamento sempre crescente dei consumatori con un trend positivo del settore pari a +15,2% (1). Appare dunque evidente come la preparazione di alimenti biologici possa costituire per l’impresa alimentare una interessante opportunità di mercato.

Ma quali sono i passi che un'impresa deve compiere per ottenere la certificazione biologica?

Un'azienda che vuole preparare alimenti biologici in primis deve notificare la sua attività presso il Sistema Informativo Biologico (SIB), la piattaforma presente nel sistema informativo agricolo nazionale (SIAN) e istituita dal DM 2049/2012, quindi scegliere un ente di certificazione che sia autorizzato dal Mipaaf e accreditato da Accredia secondo la norma UNI CEI ISO/IEC 17065. Assoggettandosi al sistema di controllo, l’operatore sarà sottoposto agli accertamenti e alle valutazioni da parte dell’ente, ottenendo quindi il rilascio del Documento Giustificativo (DG) e del Certificato di Conformità (CC) (4), documenti indispensabili per la messa in commercio di alimenti biologici. In base al tipo di attività notificata, l’operatore sarà classificato in:

  1. produttore, se si occupa di produzione primaria (vegetale, zootecnica o acquacoltura);
  2. preparatore, se si occupa della trasformazione di alimenti biologici;
  3. importatore, se si occupa dell’importazione di prodotti biologici da paesi extra-UE.

Quali disposizioni per la preparazione di prodotti biologici?

La preparazione di un prodotto biologico deve soddisfare le prescrizioni dei regg CE 834/2007, CE 889/2008 e DM del 18.07.2018. Fermo restando quindi il rispetto dei requisiti igienico-sanitari previsti dalla normativa cogente, l’azienda dovrà altresì implementare delle procedure (di selezione dei fornitori, di pulizia, di progettazione della ricetta, etc.) adeguate a gestire il rischio di contaminazione con materie prime e impiego di sostanze non ammesse in agricoltura biologica, in tutte le fasi del processo produttivo. Nel caso di operatori “misti”, che trasformano cioè sia prodotto bio che convenzionale, è necessario che le operazioni di lavorazione di prodotto biologico siano eseguite in cicli completi e separati nello spazio e/o nel tempo dalle medesime operazioni effettuate su prodotti non biologici (2). L’operatore, inoltre, può decidere di servirsi di un terzista per lo svolgimento di una o più attività; tuttavia anche le attività subappaltate devono essere sottoposte al controllo, per cui è raccomandabile che la scelta del contoterzista ricada su un operatore biologico certificato.
Le attività affidate a contoterzisti devono essere monitorate dall'operatore appaltante, sia perché hanno influenza sul processo e sul prodotto, sia perché possono determinare variazioni nella progettazione dell'etichetta dell'alimento bio (art. 7 comma 3 del DM del 18.07.2018).

Che requisiti deve avere un alimento per potersi definire biologico?

Il prodotto biologico è ottenuto principalmente da ingredienti di origine agricola (almeno il 50% del totale degli ingredienti, escludendo dal calcolo acqua e sale), ed è inoltre necessario che almeno il 95% in peso degli ingredienti di origine agricola sia biologico.

Vediamo più nel dettaglio quali sono gli ingredienti che si possono impiegare nella preparazione di alimenti biologici (3)

  • Gli INGREDIENTI BIOLOGICI DI ORIGINE AGRICOLA (cereali, ortaggi, frutta, latte, miele, carne…);
  • Gli ADDITIVI E GLI AUSILIARI DI FABBRICAZIONE elencati nell’Allegato VIII del Reg. CE 889/2008. Nella tabella dell’allegato, sono asteriscati gli ingredienti considerati di origine agricola;
  • Le preparazioni a base di microorganismi ed enzimi normalmente utilizzati nella trasformazione degli alimenti. Gli enzimi utilizzati come additivi devono comparire nell’Allegato VIII del Reg. CE 889/2008, sezione A;
  • Sostanze aromatizzanti naturali o preparazioni aromatiche naturali;
  • Coloranti utilizzati per la stampigliatura delle uova;
  • Acqua potabile e sali normalmente utilizzati nella trasformazione degli alimenti;
  • Eventuali sostanze minerali (anche oligoelementi), vitamine, aminoacidi e altri micronutrienti, solo se il loro impiego è autorizzato negli alimenti nei quali vengono incorporati;
  • Gli INGREDIENTI NON BIOLOGICI DI ORIGINE AGRICOLA elencati nell’Allegato IX del Reg. CE 889/2008. L’utilizzo di ingredienti non biologici di origine agricola non presenti nell’Allegato IX del Reg. CE 889/2008 va autorizzato dall’autorità competente, previa dimostrazione da parte dell’operatore che lo stesso ingrediente biologico non sia disponibile in quantità sufficienti. L’autorizzazione è concessa per un periodo di 12 mesi, ed è prorogabile per 3 volte.

Particolare attenzione andrà quindi riservata al processo di selezione dei fornitori di materie prime, in particolare quelle biologiche, avendo cura di controllare, in fase di qualifica, la validità dei documenti di certificazione del proprio fornitore, che deve essere anch’egli un operatore controllato e certificato. Per verificare la conformità dei documenti di certificazione, ma anche per ricercare il fornitore di una data materia prima biologica, si possono consultare:

  • il database "DATABIO” di ACCREDIA (5), che contiene i dati relativi alle certificazioni emesse dagli organismi di controllo.
  • il portale del SIAN dedicato agli operatori biologici italiani (6).

L’operatore, dopo aver elaborato la ricetta di preparazione, tenendo conto anche delle sostanze ammesse e tipologia di impiego delle stesse (si ricorda il caso dell'estratto di rosmarino dalla duplice funzione) (7), la sottoporrà all’approvazione del suo ente di certificazione, il quale ne verificherà la conformità ai requisiti sopra elencati. L’inserimento della referenza nel certificato di conformità darà diritto all’operatore di produrre e commercializzare il prodotto come biologico.

Dott.ssa Roberta Viscioni

 

 

Fonti:

(1) www.sinab.it “Il bio in cifre 2017”

(2) Reg. CE 834/2007

(3) Reg. CE 889/2008

(4) DM 2049/2012

(5) www.databio.it

(6) https://www.sian.it/aBiologicoPubb/start.do

(7) https://ec.europa.eu/food/sites/food/files/safety/docs/reg-com_toxic_20180917_sum.pdf

29 Luglio 1958, Washington, Stati Uniti.

Il presidente Eisenhower firma il National Areonautic and Space Act con il quale nasce la NASA (National Areonautics and Space Administration).

Un evento storico, un evento che qualche anno dopo segnerà l’evoluzione della sicurezza alimentare come oggi la conosciamo.

Erano gli anni ’60 quando alla NASA misero a punto un sistema per la sicurezza degli alimenti, al tempo solo per gli astronauti, ma che da li a poco avrebbe stravolto il mondo alimentare: il sistema HACCP!

Hazard Analysis and Critical Control Point, Analisi dei pericoli e dei punti critici di controllo. Un sistema basato su sette principi:

  1. Individuazione e Analisi dei Pericoli
  2. Determinazione dei Punti Critici di Controllo (CCP)
  3. Definizione dei Limiti Critici
  4. Definizione di un Sistema di Monitoraggio dei CCP
  5. Definizione delle Azioni Correttive
  6. Definizione delle Procedure di Verifica
  7. Definizione della Documentazione

Sebbene questo sistema aveva lo scopo iniziale di salvaguardare la salute degli astronauti da possibili malattie trasmissibili dagli alimenti, con ottimi risultati si pensò di diffondere questo sistema in tutto il campo alimentare, ad ogni fase della filiera produttiva.

Diffondendosi a macchia d’olio in tutti gli USA, negli anni ’90 il sistema HACCP approda in Europa con la Direttiva 1993/43/CEE recepita in Italia dal D. Lgs 155/1997, ponendo l’obbligo di attuazione dell’HACCP a tutti gli operatori del settore alimentare.

Passano gli anni, il mondo si evolve, cambiano abitudini alimentari, metodi di preparazione, trasformazione, confezionamento degli alimenti, nascono le nuove tecnologie alimentari. L’evoluzione in questo campo corre veloce e cresce la necessità di apportare delle modifiche alla normativa cogente.

Nasce il Regolamento (CE) n.852/2004 recepito in Italia dal D. Lgs 193/2007 e vengono introdotte le sanzioni per l’inadempienza del Regolamento (CE) n.852/2004.

Questo percorso storico, iniziato negli USA e continuato in Europa, ha visto la sicurezza alimentare evolversi, espandersi a dismisura in ogni realtà alimentare, dalla grande industria alla piccola attività, con un unico scopo, salvaguardare la salute dei consumatori, ogni singolo consumatore.

Il Regolamento (CE) n.852/2004 è però figlio di un altro Regolamento, nato due anni prima: il Regolamento (CE) n.178/2002 relativo alla sicurezza Alimentare. Uno stravolgimento in campo normativo, il primo pilastro di una rivoluzione culturale. Nuove definizioni, campi di applicazione più chiari e precisi, centralità nel concetto di rintracciabilità ed infine la nascita dell’ EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare).

Gli anni 2000 hanno apportato un radicale cambiamento nella concezione della sicurezza alimentare, da analisi e metodologia applicata all'industria alimentare ad una voglia concreta di rendere la food safety un concetto culturale intrinseco nell'educazione alimentare della comunità europea.

Andiamo con ordine.

28 Gennaio 2002, Bruxelles, Patrick Cox (Presidente del Parlamento Europeo dal 2002 al 2004) e J. Piqué i Camps (Presidente del Consiglio) firmano il Regolamento (CE) n.178/2002, una normativa che,  come anticipato,  ha cambiato radicalmente la sicurezza alimentare, espandendo la sua concezione iniziale.

In che modo? Attraverso una nuova definizione di alimento, ponendo la rintracciabilità come strumento fondamentale per individuare ogni singola tappa della filiera, istituendo e dando pieni poteri di libertà scientifica, sorveglianza e comunicazione all’EFSA, ponendo il principio di precauzione come strumento politico per intervenire nei casi di incertezza scientifica, individuando nella salvaguardia della salute della comunità, e quindi in ogni singolo consumatore, il fulcro principale della sicurezza alimentare.

Due anni dopo, da questo Regolamento nasce il Regolamento (CE) n. 852/2004 e sempre nel 2004 verranno pubblicati altri Regolamenti che andranno a formare il Pacchetto Igiene.

Come tutte le cose belle, il rovescio della medaglia c’è e piccole falle in questo sistema di rivoluzione rallentano il suo sviluppo. Sempre più “professionisti” del settore passano dall'essere consulenti di corretta applicazione del sistema HACCP a consulenti di terrore, parlando più di sanzioni per la mancata applicabilità di un Regolamento che di come lo stesso Regolamento debba essere applicato. Uno scenario apocalittico a discapito della sicurezza alimentare e della salute dei consumatori. Oggi si pensa alle “carte” e non al contenute delle stesse. Un Piano di Autocontrollo diventa un libro mai letto e le schede un tabulato in cui inserire temperature mai registrate veramente!

È vero, si sta estremizzando, ma la realtà dei fatti è che sempre più produttori, trasformatori e distributori diventano numeri, per la solita gara del chi ha lo studio di consulenza più grosso.

AGOSTINO PERASOLE

Nelle migliori cucine, fin dai tempi di Colombo e Marco Polo, il piano di cottura è stato invaso da barattoli di tutti i tipi. Barattoli magici capaci di trasformare la più secca carne alla  piastra,  nel  miglior  piatto  del  secolo.  Barattoli  una  volta colorati, o trasparenti, contenitori di spesso vetro a fiori in rilievo, a volte cupi col tappo a pressione. Ecco signori, questo era il mondo delle spezie vere. Stavano in piccoli scrigni preziosi poiché racchiudevano tesori di incommensurabile valore, senza tempo e da ogni dove. Prodotti della terra raccolti e lavorati a mano e conservati con dei rituali ben precisi, poi tenuti al buio e al fresco e al secco…Beh almeno una volta era così. Quando la curcuma arrivava dall'India raccolta dalla Curcuma longa, una pianta erbacea e perenne, quando lo zafferano era raccolto dai fiori in stimmi   belli,   rossi   essiccati,   tritati   e   profumati,   quando   il peperoncino  era  stato  impilato  sotto  il sole caldo della Calabria e appeso all'aria prima  di  seccare  e  diventare  polvere.

Peperoncino festival Diamante (CS)

Adesso purtroppo non sappiamo più cosa contengono quei barattoli. Si, perché se ci  allontaniamo con  la nostra  lente d’ingrandimento, in maniera esponenziale, dall'antica cucina colorata e dall'odore delle spezie che impregna i banchi di marmo, e guardiamo il mondo così com'è oggi, vedremo degli edifici con locali asettici, componenti in acciaio e l’aspetto del posto simile ad una sala operatoria. Fredde, senza odori, senza sapori e senza sentimenti. Sono i laboratori industriali. Con contenitori d’acciaio e chili e chili di spezie che ci vendono in barattolini costosi ed ermeticamente sigillati.

Particolare della cucina del Castello di Corigliano Calabro

Ma cosa contengono in realtà? Nessuno ce lo dirà mai! Magicamente, al posto della curcuma vera dalle mille proprietà nutraceutiche, è apparsa nei barattolini la curcumina sintetica ottenuta a partire da composti derivati dal petrolio con metodi che prevedono l’uso di acetil-acetone e vanillina, attenzione, anch'essa sintetica!

E invece dello zafferano in polvere sottilissima si vende, il più delle volte, calendula o cartamo a basso costo e magari addizionato al colorante sintetico tartrazina.

Vogliamo parlare poi del peperoncino??Ci si apre un mondo! Il mondo del Sudan.

I coloranti Sudan (I, II, III, e IV) da qualche anno finalmente riconosciuti come cancerogeni e genotossici, sono stati poi banditi in modo assoluto dagli alimenti in tutti i paesi dell’Unione europea con la Decisione 2004/92/CE successivamente integrata ed abrogata dalla Decisione della Commissione 2005/402/CE del 23.05.2005, che è stata la conseguenza di uno dei più grandi allarmi alimentari degli ultimi anni e ha caratterizzato l’attività analitica del peperoncino rosso piccante. Sarà ormai sicuro acquistare peperoncino in polvere? E quando acquistate l’origano? E’ davvero un rompicapo dividere il cisto e le altre erbe che vi addizionano al vero origanum vulgare! Tutte queste adulterazioni delle spezie sono purtroppo ancora possibili poiché molto difficile e dispendioso è effettuare analisi sul prodotto in commercio anche se N.A.S. e IcqRF continuano ogni giorno il loro lavoro d’indagine. Nella curcuma, per esempio, si ricerca la presenza di carbonio-14. L’Abc-American botanical council ha avviato un vero e proprio programma di ricerca delle adulterazioni delle piante utilizzate come spezie e definisce la sostituzione della curcumina naturale con la curcumina sintetica un tipo di attività comune difficile da rilevare nella maggior parte test spettroscopici e analitici. La misurazione dell'isotopo di carbonio, che richiede un sofisticato spettrometro di massa per misurare il 14C nel campione, è il metodo più efficace per determinare se la curcumina è di origine vegetale o di origine sintetica.

Zafferano - Azienda Mallamaci (Motta San Giovanni -RC)

Nel frattempo l’UE si è ancora spinta sui limiti di alcuni contaminanti delle coltivazioni di piante e frutti destinate al consumo umano e delle spezie in Europa (Reg. UE 2018/1516 del 10 ottobre 2018 ) modificando gli allegati II e III del regolamento (CE)n. 396/2005 e restringendo i parametri di alcuni principi attivi che possono essere presenti.

Un consiglio, quindi, potrebbe essere quello di scegliere sempre prodotti meno trattati, magari freschi e da lavorare secondo la tradizione, il meno sminuzzati e impastati possibile e quindi più vicini alla loro origine, più vicini ai “barattoli magici”.

CLAUDIA BUONOFIGLIO

“Fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo” queste le illuminanti parole di Ippocrate che ben si sposano con il concetto di supercibo.
Il supercibo è rappresentato da tutti quegli alimenti che contengono principi attivi particolarmente interessanti per la salute. Dopo aver parlato a lungo di bacche anti-age, tea e caffè verde, Ginkgo biloba, et similia.., oggi l'interesse si è spostato sugli insetti edibili.
Perché mangiare insetti?
Il cambiamento climatico e la crescita della popolazione mondiale sono fenomeni innegabili pertanto all'uomo spetta cambiare le abitudini alimentari, questo perché le diete occidentali sono inefficienti ed energivore.
Il problema maggiore è la dipendenza globale dalla carne e il conseguente impatto negativo degli allevamenti sull'ambiente per consumo di acqua, territorio ed emissione di gas serra.


La FAO ha dunque iniziato ad interessarsi agli insetti come fonte sostenibile di proteine di origine animale per la nutrizione umana. Poiché gli insetti occupano meno spazio e richiedono meno risorse per crescere, il loro impatto complessivo sull'ambiente risulta molto meno dannoso rispetto al tipico allevamento di mammiferi, che li rende buoni candidati per una fonte di cibo globale.
Dove vengono consumati oggi?
Attualmente gli insetti vengono consumati come parte della dieta quotidiana o sua integrazione in un elevato numero di paesi del mondo, in via di sviluppo e non, fra cui Asia, America Latina, Africa e Oceania. Certo è difficile quantificare il numero di specie impiegate: innanzitutto a causa della disomogeneità delle diete all'interno delle varie zone ed anche per il mancato utilizzo di una classificazione delle specie.
L'usanza di mangiarne ha radici molto più profonde di quanto si possa pensare e non è tipica solo delle civiltà più povere selvagge ma anche di quelle più evolute e raffinate.
In America e in Europa ci sono cuochi e scienziati impegnati, già da un decennio, nello studio e ricerca dell'importanza storica, culturale ed ecologica dell’usanza di mangiare insetti.
Secondo dati statistici della Coldiretti, l’entomofagia rappresenta una novità che vede contrari ben il 54% degli italiani che la considerano estranea alla cultura alimentare nazionale, mentre sono indifferenti il 24%, favorevoli il 16% e non risponde Il 6%. Pochissimi, in particolare, i favorevoli alla possibilità di mangiare insetti interi.
Caratteristiche nutrizionali.
Già nella preistoria l'uomo si cibava di insetti ma poi, soprattutto nei paesi industrializzati, i pregiudizi culturali hanno preso il sopravvento. Oggi gli unici alimenti consumati, derivanti da essi, sono miele e pappa reale eppure molte persone hanno già mangiato insetti in forme diverse senza nemmeno saperlo. Gli insetti rappresentano una fonte di cibo altamente nutriente perché forniscono proteine di alto valore biologico, sono ricchi di aminoacidi essenziali tra cui lisina, metionina e leucina e sembrano contenere una quantità maggiore di acidi grassi polinsaturi (il contenuto varia significativamente a seconda della specie e dalla loro alimentazione) ed elevati livelli di minerali tra cui ferro, rame, zinco, magnesio, manganese, fosforo, selenio e vitamine B1, B2 e B3 se comparati agli animali da allevamento.
Nonostante il crescente entusiasmo, rimangono numerosi punti interrogativi che riguardano principalmente i rischi per l'uomo; il riconoscimento ufficiale degli insetti come alimento, infatti, non può prescindere dalla presenza di dati microbiologici, chimici e tossicologici che ne attestino la sicurezza per il consumatore finale, le capacità produttive degli allevamenti e l'impatto ambientale. Non ultimo anche il reale interesse dei consumatori circa il possibile consumo abituale di insetti in sostituzione della carne.


Quanto è sicuro consumare insetti?
Secondo l'EFSA consumare pietanze con specie di insetti (ritenute sicure) per la salute umana risulta sicuro quanto mangiare una cotoletta poiché ogni fase degli allevamenti sarà soggetta a controlli e obblighi relativamente a: specie di insetto e suo stato di salute; tipo di terreno di crescita impiegato; indagine chimica e microbiologica dell'allevamento; conformità degli impianti di lavorazione e stoccaggio; delle procedure di etichettatura ed immissione in commercio. Il rispetto della normativa renderà sicuro il consumo di insetti così come quello di altri alimenti, ma i ricercatori stanno focalizzando la loro attenzione sulla potenziale comparsa di allergie poiché gli insetti presentano una struttura simile a quella dei crostacei: contengono in gran quantità la chitina e la tropomiosina che, in persone sensibili, potrebbero provocare severe reazioni allergiche e perfino shock anafilattico. Ci sono inoltre molteplici aspetti ancora oggetto di studio e ricerca tipo quelli relativi al rischio di possibili zoonosi, patogeni, tossine e contaminazione con metalli pesanti causati dal consumo di insetti.
Gli insetti possono essere preparati come prodotti alimentari o mangimi in modo relativamente facile. Alcune specie possono essere consumate intere, altre possono essere anche trasformate in impasti o macinate prima di essere consumate o le loro proteine possono essere estratte ed utilizzate a parte.
Legislazione.
Dal punto di vista normativo devono essere sviluppate regolamentazioni a livello nazionale ed internazionale per gestire la produzione del consumo di alimenti e mangimi di origine entomologica nel contesto della salute umana e del benessere animale. Certamente è necessario rendere ottimali le metodiche per la valutazione dei rischi connessi all’allevamento di massa ed alla raccolta in natura per evitare l'introduzione di specie aliene ed invasive nelle popolazioni naturali ed insetti.
Dal punto di vista microbiologico sia gli insetti selvatici che quelli d'allevamento possono essere attaccati da microrganismi patogeni quali funghi, batteri, protozoi, virus e altro. Generalmente questi patogeni sono tassonomicamente molto distanti da quelli che affliggono i vertebrati quindi in linea generale possono essere considerati innocui per l'uomo ma anche in questo caso le ricerche devono essere approfondite per dare maggiori certezze a livello sanitario e sicurezza al consumatore.
La nuova normativa sui Novel Food Reg. (UE) 2015/2283, che abroga il Reg. (UE) 258/97, introduce gli insetti tra i novel food ma ai fini di un eventuale impiego alimentare, è necessario richiedere una preventiva autorizzazione a livello UE previo accertamento della loro sicurezza alle quantità di assunzione proposte. L’autorizzazione di un novel food deve essere richiesta alla Commissione Europea, seguendo le linee guida pubblicate dall’EFSA. Il novel food può essere immesso in commercio solo dopo il rilascio dell’apposita autorizzazione, alle condizioni stabilite dalla stessa.


Al momento, in Italia, nessuna specie di insetto (o suo derivato) è autorizzata per impiego alimentare. Nel frattempo gli Stati membri che ne hanno ammesso la commercializzazione prima del 1 gennaio 2018 possono continuare a mantenerli sul loro mercato.
Attualmente le autorità che si occupano di sicurezza alimentare e i legislatori si trovano in una situazione peculiare. Da un lato devono disporre di evidenze scientifiche valide per poter definire i potenziali rischi, dall'altro sono pressati dagli OSA e dai potenziali consumatori che ritengono i ritardi tecnico-normativi come inutili ostacoli alla diffusione di un alimento salubre, ecologico e già diffuso.
In conclusione.
È fondamentale, così come succede per tutti gli altri animali domestici, che le condizioni di igiene vengano controllate durante l'allevamento e il procedimento di conservazione.
I metodi più adatti ad abbattere qualunque tipo di residuo patogeno sono: la cottura, il congelamento, l'essiccamento o l’acidificazione.
La strada per la diffusione dell’entomofagia in Europa è sì aperta, ma solo il tempo potrà mostrarci l'evoluzione dei consumi alimentari in tale direzione ed è al momento difficile prevedere cambiamenti radicali soprattutto in paesi come il nostro, ove la cultura alimentare è fortemente ancorata alle tradizioni.

ELISA BONAFEDE

 

Fonti:

"Entomophagy and italian consumers: an exploratory analysis". Progress in nutrition. Dec. 2015 Giovanni Sogari;

Food and agricolture Organization of the United Nations. "Edible insects. Future prospects for food and feed security" Report FAO 2016;

Reg. UE 2015/2283 del Parlamento Europeo sui novel food;

Bellucco, Losasso, Maggioletti, Alonzi, Paoletti e Ricci. "Edible insects in a food safety and nutritional perspective: a critical review".

Se vi chiedessero cosa significa per voi dire che un cibo è “sicuro”, che cosa rispondereste?

Alla maggior parte di noi il termine “sicuro” farà sicuramente venire in mente qualcosa di pulito, innocuo, igienicamente non contaminato, salubre, privo di elementi che possano arrecare qualche danno a chi lo ingerisce. Se questa è la prima definizione che vi sovviene, significa che l’aspetto che vi è più familiare della sicurezza alimentare è la Food Safety. In italiano però, il termine sicuro non ha solo l’accezione di “non pericoloso”, ma anche quella di qualcosa di certo, la cui disponibilità deve esserci garantita, qualcosa a cui ci assicurano di avere accesso. Questo secondo significato di sicurezza alimentare fa invece riferimento al campo della Food Security.

Quello appena fatto non è un semplice esercizio lessicale per occupare dieci minuti di un pomeriggio noioso. Rappresenta invece il punto di partenza per comprendere la quasi totalità delle politiche per la gestione del cibo a livello globale. Se la lingua italiana, a dispetto della sua incredibile ricchezza terminologica, ci permette di usare un solo termine per riferirci a entrambi questi due ambiti d’azione, l’inglese questa volta ci batte, differenziando nettamente la sicurezza alimentare in “safety” e “security”.

Vediamo questi concetti più nel dettaglio.

La Food Safety ha come obiettivo la prevenzione delle malattie (o di qualsiasi altro danno) a trasmissione alimentare e riguarda ogni fase della lavorazione, preparazione e conservazione del cibo. I rischi che possono compromettere la Food Safety di un alimento possono essere chimici (come la presenza di allergeni non segnalati o di livelli inaccettabili di pesticidi o metalli pesanti), fisici (ad esempio la presenza di materiale estraneo, come frammenti di vetro o schegge di metallo) o microbiologici (ossia la presenza di virus o batteri patogeni o ancora tossine da essi prodotte). Quest’ultimo aspetto è sicuramente il più centrale negli sforzi per assicurare un’adeguata Food Safety.

Controllare la sicurezza di qualcosa con cui ogni individuo della terra ha a che fare ogni giorno e più volte al giorno, per tutta la vita, non è affatto un’impresa da poco. I numeri che ci descrivono il peso delle malattie a trasmissione alimentare sono eloquenti: ogni anno, una persona su 10 si ammala per aver mangiato cibo contaminato e 420 mila persone muoiono per tossinfezioni alimentari. Queste patologie colpiscono particolarmente i bambini al di sotto dei 5 anni (causando circa 125 mila decessi l’anno), soprattutto nei Paesi della Regione Africana e del Sud Est asiatico. Nella Regione europea si registra un impatto minore, anche se comunque sono più di 23 milioni le persone che ogni anno si ammalano per cibo contaminato e 5000 sono i decessi correlati (2). In Italia, i maggiori responsabili di focolai di malattie trasmesse da alimenti sono riconducibili al batterio Salmonella (responsabile della Salmonellosi), seguono il Norovirus (virus che causa gastroenteriti), il temutissimo Clostridium botulinum (che determina la grave intossicazione alimentare nota come Botulismo), il Campylobacter (batterio che porta alla Campylobatteriosi, la malattia a trasmissione alimentare al momento più riscontrata in Europa) e il virus che causa l’Epatite A, spesso diffuso a causa dell’ingestione di prodotti della pesca crudi contaminati (1).

Abbiamo, quindi, capito che la Food Safety riguarda la salubrità igienico-sanitaria del nostro cibo. Ma se il cibo non c’è? Se il cibo c’è ma non posso permettermelo? Se me lo posso permettere, ma è di scarsa qualità? Ecco che entriamo nel campo della Food Security. Possiamo, infatti, affermare che esiste una Food Security quando tutte le persone, in qualsiasi momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico a cibo sufficiente, sicuro e nutriente, che soddisfi i loro fabbisogni nutrizionali e preferenze alimentari e permetta loro di condurre una vita attiva e sana. Il concetto è però ancora più complesso e riguarda anche le modalità e i mezzi con cui il cibo viene prodotto e distribuito (che devono essere sostenibili per il pianeta), la sua produzione e il suo consumo (che devono essere fondati e governati da valori sociali di giustizia ed equità, così come di morale e di etica), ma anche la sua accettabilità culturale e il rispetto della dignità umana di chi lo produce (5). Utopico? Eppure questo è l’obiettivo che ci dobbiamo porre, o almeno, a cui dobbiamo aspirare.

La Food Security è un concetto strettamente intrecciato anche all’ecologia. La produzione alimentare moderna si è basata su una sempre maggiore intensificazione e capitalizzazione dei processi, la concentrazione delle proprietà in poche mani e una risultante riduzione del prezzo al dettaglio. I punti cardine per l'incremento della resa agricola adottati finora sono stati la selezione genetica delle varietà vegetali e delle razze animali, l’applicazione di nutrienti alle coltivazioni e ai mangimi animali, l’uso massiccio di prodotti fitosanitari (come pesticidi e fertilizzanti) e l'impiego di farmaci veterinari per prevenire epidemie di malattie in gruppi di animali confinati e per favorirne la crescita e la produttività. Si sono, inoltre, sempre più sviluppati modelli di coltivazione per monocoltura e aumentate le dimensioni dei campi e degli allevamenti, con una conseguente riduzione della biodiversità (5). Si pensi che, la stragrande maggioranza del cibo prodotto nel mondo si basa ormai solo su circa 12 specie vegetali e 14 specie animali. La FAO stima che quasi il 75% delle differenti colture agricole sono andate perse nell’ultimo secolo e teme che centinaia delle 7000 razze animali ad oggi registrate nel suo database siano in pericolo di estinzione. Proteggere la biodiversità non è solo una questione ecologica, ma anche economica: man mano che la biodiversità declina, infatti, il rifornimento di cibo diventa più vulnerabile al cambiamento climatico e alla scarsità d’acqua (4). Non solo. L’aumento della capitalizzazione della filiera alimentare ha ridotto il numero delle aziende alimentari locali e di piccole dimensioni e aumentato la concentrazione del commercio nelle mani di un minor numero di operatori: i piccoli produttori si ritrovano così con un mercato surclassato dai grandi produttori con i loro bassi costi. La crescente standardizzazione dei cibi, poi, orientata a rendere più efficiente e funzionale il processo di produzione, distribuzione e preparazione degli alimenti, ha sì giocato un ruolo rilevante nel fornire soluzioni alimentari di più facile accesso, ma spesso a scapito di un corretto equilibrio nutrizionale. I maggiori produttori economici, infatti, tendono a operare su larga scala, spesso oltreoceano, in regioni con un costo relativamente basso delle terre, del lavoro o con protezione ambientale. Con l'avvento della globalizzazione sono perciò aumentate le distanze nei trasporti e per far ciò è stato necessario l'aumento anche della lavorazione degli alimenti abbinato all’uso di additivi. Cruciale per la produzione alimentare è poi l'energia. L'energia (sotto forma di combustibili fossili, elettricità, gas naturale e lavoro umano) non viene utilizzata soltanto per la piantagione, coltivazione e raccolta delle piante, ma anche per la trasformazione e il trasporto di mezzi come pesticidi, fertilizzanti e macchinari e per la lavorazione, confezionamento e distribuzione dei prodotti finali. Intensificando la produzione agricola, si tende ad aumentare la dipendenza delle comunità agricole da fonti d’energia esterne (5). È stato stimato che circa il 95% dei prodotti alimentari richiede l’uso di petrolio nel suo processo produttivo. Secondo i ricercatori della University of Michigan's Center for Sustainable Agriculture, servono in media 7 calorie di combustibile fossile per produrre, lavorare e trasportare ogni caloria di cibo. Se teniamo conto che i combustibili fossili stanno divenendo sempre più limitati, possiamo immaginare quale impatto avrà ciò sulla Food Security, soprattutto in Paesi che fanno pesantemente affidamento sull’importazione di cibo (4). Un altro grande fattore che incide sull'impiego di risorse ambientali in agricoltura è l'acqua. Teoricamente tutte le produzioni alimentari si basano sulla coltivazione di vegetali, che dipendono dall’acqua. Visto, poi, che l’allevamento si basa su mangimi vegetali, ancora più acqua è richiesta per produrre carne. Inoltre, le coltivazioni a resa elevata richiedono più acqua rispetto alle varietà a bassa resa e questa è una delle ragioni per cui il consumo agricolo mondiale di acqua è quasi triplicato dagli anni ’50 del Novecento (5).

Il punto però è che non solo la produzione del cibo ha un impatto sull’ambiente, ma anche viceversa. Molti studi hanno esaminato l’effetto dei cambiamenti climatici sulla produttività delle colture. È certo che la stabilità del rifornimento alimentare è influenzata dalla frequenza e della severità di eventi estremi come cicloni, inondazioni, grandinate o siccità, per non parlare di ciò che non è così improvviso ed estremo, ma lento e logorante, come la perdita di biodiversità, la desertificazione dei suoli, la degradazione ecologica, l'inquinamento di aria e acqua e l’esaurimento delle risorse naturali.

Da tutto ciò possiamo capire come la sfida di perseguire gli obiettivi della Food Security sia tutt’ora ardua. Ad oggi, circa 795 milioni di persone nel mondo non hanno cibo a sufficienza. Va detto che questo numero è diminuito di 216 milioni dal 1990, ma stiamo comunque ancora parlando di circa 1/9 della popolazione mondiale. È difficile che noi, nascosti dietro il nostro frigorifero pieno, ci pensiamo spesso: la stragrande maggioranza delle persone che soffrono la fame vive nei Paesi in via di sviluppo, dove ben il 12,9% della popolazione è denutrito. In particolare, l'Africa Sub-sahariana è la regione al mondo dove questo problema è più presente: si pensi che una persona su quattro lì soffre di denutrizione (3).

C’è sicuramente qualcosa di sbagliato nel fatto che metà del mondo non ha soldi per procurarsi il cibo e l’altra metà li spende per capire come mangiare di meno. Se risolvere questo paradosso rimane ad oggi un traguardo a dir poco complesso da raggiungere, fermarsi perlomeno a rifletterci ne rappresenta sicuramente la linea di partenza.

ELENA FERRERO

Fonti

(1) “EU summary report on zoonoses, zoonotic agents and food-borne outbreaks 2016” dicembre 2017, European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) e Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) (http://www.epicentro.iss.it/problemi/tossinfezioni/ReportEcdcEfsa2017.asp)

(2) “Estimates of the global burden of foodborne diseases” dicembre 2015, Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)

(3) “State of Food Insecurity in the World”, FAO, 2015.

(4) Hanning I. B., O’Bryan C. A., Crandall P. G., Ricke S. C. (2012) “Food Safety and Food Security”. Nature Education Knowledge 3(10):9 (https://www.nature.com/scitable/knowledge/library/food-safety-and-food-security-68168348)

(5) “Food and health in Europe: a new basis for action”. WHO Regional Publications, European Series, No. 96, 2004.

Fin dai tempi più antichi l’uomo ha associato alle piante ed ai loro estratti una capacità curativa (1).

Tra le principali piante utilizzate fin dall'antichità a scopo terapeutico possiamo ricordare la salvia, il papavero, l'assenzio e in particolare l'aglio le cui origini, ancora oggi, sembrano incerte. Ben più note, invece, sono le sue capacità benefiche: antibiotico, antisettico, balsamico, antipertensivo. Questa vera panacea presenta comunque uno svantaggio: l’odore antisociale che lascia a chi lo assume. I responsabili della formazione del tipico odore dell'aglio sono composti solforati contenuti nella pianta, in particolare l'allicina la quale viene liberata quando l'enzima allinasi, normalmente contenuto nel vacuolo, agisce sull'alliina, un composto incolore ed insapore. Tutto ciò accade ogni volta che l'aglio viene “danneggiato”, per esempio durante la masticazione, il taglio, oppure la spremitura; questo è il motivo per cui, invece, gli spicchi interi non hanno odore. Le problematiche dell'aglio relative al cattivo odore possono essere risolte attraverso un processo di fermentazione che vede coinvolti i batteri L. Plantarum e Weissella. Si tratta di un processo che permette di ottenere, a partire dall'aglio fresco, il cosiddetto Aglio nero (Black Garlic), così chiamato in quanto, durante il processo di fermentazione che avviene a temperature e umidità controllate, ne viene modificato il colore (da chiaro a scuro), oltre che il sapore (da amaro a dolce) e la consistenza (da duro a gommoso).

Questo processo di fermentazione sembra andare a modificare anche il contenuto nutrizionale dell'aglio; si assiste, difatti, ad un aumento del contenuto degli zuccheri, dei polifenoli, dei flavonoidi, mentre a diminuire sono i fruttani essendo ampiamente utilizzati durante lo stesso processo di fermentazione.

La durata del trattamento varia in funzione della varietà dell’aglio, del produttore e dei suoi obiettivi, ma solitamente i bulbi di aglio fresco vengono lasciati fermentare per 1 mese circa, dopodiché si lasciano ossidare all’aria per altri 45 giorni.

Secondo un ampio numero di studi scientifici, gli estratti ottenuti dal Black Garlic sono caratterizzati da proprietà antiossidanti, antiallergiche, antidiabetiche, antiinfiammatorie ed antitumorali (2). In particolare, l'estratto metanolico dell'aglio nero e le frazioni da esso ottenute sembrano mostrare effetti antiproliferativi ed epatoprotettivi. Ciò è stato dimostrato attraverso studi condotti in vitro utilizzando la linea cellulare di adenocarcinoma epatico (HepG2). Nello specifico, tramite saggi di vitalità cellulare, è stato dimostrato l'effetto antiproliferativo indotto dal trattamento con l'estratto metanolico dell'aglio nero; attraverso il saggio dell'ossido nitrico, invece, è stato dimostrato che la concentrazione di ossido nitrico (NO) rilevata nel mezzo cellulare aumenta del 36% solo a 2 mg/ml di estratto. Si tratta di un risultato di grande interesse in considerazione delle molteplici azioni fisiologiche (vasodilatazione, trasduzione dei segnali neuronali) e patologiche (apoptosi) che questo secondo messaggero è in grado di esercitare in diversi tessuti. Infine, attraverso il saggio colorimetrico Oil Red O (ORO) è stata evidenziata una diminuzione dell'accumulo di goccioline lipidiche nel citoplasma delle cellule HepG2 trattate con l'estratto metanolico rispetto alle cellule HepG2 non trattate.

Le differenti proprietà biologiche dell'aglio nero, e in particolare dell'estratto metanolico, indicano che rappresenta un alimento potenzialmente utilizzabile per la salute umana al fine di poter contrastare “naturalmente” diverse patologie alle quali l'uomo può andare incontro.

Ulteriori studi sono comunque necessari al fine di individuare e caratterizzare i composti responsabili delle attività biologiche osservate e chiarire i meccanismi molecolari alla base di tali attività.

ROSY MAUCIONE

 

FONTI:

  • Burt S.

Essential oils: their antibacterial properties and potential applications in foods- -a review. Int J Food Microbiol. 2004; 94:223-253.

  • Kimura S., Tung Y.C., Pan M.H., Su N.W., Lai Y.J., Cheng K.C.

Black garlic: A critical review of its production, bioactivity, and application. J Foof Drug Analysis. 2017; 25:62-70.

La nascita di un bebè è senza dubbio un’emozione intensissima destinata a diventare uno dei momenti più belli della vita di una persona. Ma, chi si occupa di igiene sa che oltre all’affetto il bimbo ha bisogno di assumere delle sostanze già dai primi istanti di vita. Questa premessa per introdurre l’articolo e capire, anche se sommariamente, perché alcuni alimenti mostrano una più o meno intensa attività antimicrobica.

Ritornando al discorso dei neonati, la lattoferrina è una delle prime sostanze che difenderanno il piccolo da infezioni batteriche e fungine.

La lattoferrina è una proteina mai satura di ferro. Si trova appunto nel latte ma anche in altre secrezioni mucose come la saliva e le lacrime.

L’attività antimicrobica è dovuta alla sua affinità per lo ione ferrico (Fe3+) e, visto che alcuni batteri richiedono ferro per potersi moltiplicare, la lattoferrina lo sottrae all’ambiente di crescita impendendone quindi la proliferazione.

Un’altra molecola contenuta nel latte materno, ed anche in grandi quantità nelle uova, è il lisozima.

La sua azione antimicrobica è data dal fatto che ha capacità di idrolizzare i peptoglicani presenti nella parete batterica, in particolare Gram positivi, fino alla loro lesione.

Viene utilizzata anche nella produzione di vini, birre e formaggi. Grazie alla sua attività enzimatica, il lisozima è capace di modulare e controllare lo sviluppo di fermentazioni microbiche indesiderate.

In quanti di noi poi si sono trovati a fronteggiare la “potenza” dell’aglio? E quanti si sono chiesti il perché "puzzi" solo da frantumato o tritato e non da integro?

Quando schiacciamo un aglio una sostanza al suo interno ovvero la alliina entra in contatto con un enzima: l’allinasi. L’incontro di queste due sostanze fa in modo che si sviluppi una molecola con forti proprietà antimicrobiche: l’allicina.

L’allicina è un composto solforganico con proprietà antibatteriche. Gli effetti non sono stati del tutto chiariti. Si sa che l’allicina è in grado di interagire con i gruppi sulfidrilici, inibendo l’attività di enzimi o proteine importanti per la crescita batterica. Gli estratti di allicina vengono utilizzati insieme ad altri composti per potenziare l’azione antibiotica.

Sono tantissime le sostanze che ritroviamo negli alimenti e che hanno proprietà antisettiche.

Nel campo delle spezie è davvero facile spaziare ed approfondire il discorso.

Si va dalle proprietà anestetiche e disinfettanti dell’eugenolo, un composto aromatico contenuto negli oli essenziali del chiodo di garofano per arrivare al timolo che insieme al carvacrolo, contenuto nel timo e nell’origano, sono in grado di rallentare l’assorbimento di glucosio da parte della cellula microbica.

Conoscere bene gli alimenti, le spezie e le loro proprietà aiuta a farne un uso sicuro e utile per il nostro benessere.

ANTHONY SCORZELLI

Prima sì, poi no, poi fa male, poi fa bene, io sono pro, tu sei contro, spiegami meglio la storia della rava e della fava. Consumatori, smettiamola di farci trasportare dalle emozioni sull’olio di palma. Proviamo a usare la razionalità.

Prima di tutto molti pensano che l’olio di palma sia uscito fuori solo negli ultimi tempi. Vi stupirà scoprire invece che l’uomo utilizzava questo grasso a scopi alimentari già 5.000 anni fa. Sono, infatti, state ritrovate testimonianze a questo riguardo risalenti alla civiltà Egizia (4). Sarebbe divertente scoprire come si scrivesse coi geroglifici “senza olio di palma”.

È vero, tuttavia, che la coltivazione della palma da olio (Elaeis guineensis) ha avuto una rapidissima espansione solo in questi ultimi decenni in seguito all’enorme richiesta da parte delle industrie alimentari. L’area coltivata a questo scopo dai due maggiori produttori, Indonesia e Malesia, infatti, è raddoppiata dal 1995 al 2005 e oggi l’olio di palma rappresenta ben il 65% di tutti gli oli vegetali commercializzati nel mondo (2).

Anche se lo chiamiamo olio, l’olio di palma è solido a temperatura ambiente (quindi particolarmente adatto alla preparazione di prodotti dolciari), un po’ come il burro, lo strutto, la margarina, il burro di cacao, ecc. Questo perché la sua composizione in acidi grassi è molto più simile a quella del burro di tanti altri grassi vegetali. Circa la metà (49,3 %) di tutti i suoi grassi, infatti, sono saturi (il burro, per intenderci ne ha il 51,3%) (1).

Cos’ha però di diverso rispetto al burro (croce di tutti i nutrizionisti negli anni ’90)? Visto che non è di origine animale (con gande gioia dei vegani), non contiene il – tanto temuto – colesterolo. In pratica, una margarina, ma senza i - dannosissimi – acidi grassi trans.

Quali migliori notizie per le industrie alimentari! Usiamolo tutti in massa e scriviamo a caratteri cubitali “solo grassi vegetali”, “non contiene grassi idrogenati”, “privo di colesterolo”. Tutto legittimo, tutto giusto. Ma ecco il primo esempio in cui noi consumatori ci lasciamo trasportare più dalle emozioni che dalla razionalità. È interessante come anche le battaglie alimentari seguano le mode. Questo era il periodo di “abbasso il burro che ci alza il colesterolo, viva i grassi vegetali”. Peccato che, come abbiamo detto, l’olio di palma - che ha sostituito prima il burro e poi la margarina nella preparazione dei dolci industriali - abbia la stessa quantità di grassi saturi del burro, e che proprio l’eccesso di grassi saturi nella dieta sia uno dei principali responsabili dell’aumento del colesterolo LDL (quello cattivo), molto più che il colesterolo stesso che ci mangiamo.

Ma attenzione, le mode alimentari sono tanto trascinanti quanto volubili e la situazione si è velocemente capovolta. In pochi anni l’olio di palma è passato da essere miniera d’oro per i paesi produttori e manna dal cielo per le industrie, al peggior veleno mai esistito per il consumatore. Ma ancora una volta il marketing coglie la palla al balzo e incoraggia le isterie collettive. Non vi piace l’olio di palma? Perfetto, togliamolo e puntiamo tutta la nostra pubblicità su questo! Ed ecco spuntare su ogni sacchetto e confezione, a caratteri cubitali, “SENZA OLIO DI PALMA”.

Nel 2016, infatti, uno studio dell'EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) fa emergere che, se portato a temperature superiori a 200 °C, l’olio di palma (insieme al suo parente molto meno sano, l’olio di palmisti) produce sostanze (2 e 3-3- e 2-monocloropropanediolo, MCPD, e relativi acidi grassi) che, ad alte concentrazioni, sono genotossiche, ovvero possono mutare il patrimonio genetico delle cellule, e dunque cancerogene (3). Apriti cielo.

Anche a questo riguardo, l’invito è alla razionalità. Prima di tutto si tenga in considerazione che anche altri olii vegetali sviluppano queste sostanze nocive, anche se in quantità inferiori. Inoltre, proviamo a non usare due pesi e due misure. Molte altre sostanze alimentari rientrano nella stessa categoria di rischio (come la caffeina o l'alcol). Mi sembra che nessuno abbia sollevato una tale crociata perché l’alcol è cancerogeno. E invece no, imbracciamo i forconi e andiamo tutti a pretendere che vietino l’olio di palma! Un attimo, posiamo momentaneamente il forcone e fermiamoci a riflettere sul fatto che in natura le sostanze potenzialmente cancerogene ad alte concentrazioni sono moltissime. Ciò che non ci è facile comprendere è che il rischio è legato alla frequenza e quantità di consumo: non esiste il rischio zero. Come per l’alcol, un consumo moderato di olio di palma non comporta un rischio elevato e rientra in quello che gli epidemiologi considerano il “rischio generale legato all'ambiente esterno e agli stili di vita” (1).

Il gruppo di esperti scientifici dell’EFSA sui contaminanti nella catena alimentare (CONTAM) ha dichiarato, riguardo a queste sostanze, che non intende stabilire un livello di sicurezza da non superare, perché sarebbe scientificamente scorretto. Intende piuttosto emanare un invito a cercare di non abusarne (considerando la grande diversità delle fonti possibili, comprese le fritture casalinghe con olio di mais o girasole, che facilmente raggiungono le elevate temperature necessarie alla formazione dei composti tossici). Vi è inoltre un’ulteriore rassicurazione sul fatto che è difficile che concentrazioni pericolose siano raggiunte con la normale alimentazione. L’unica attenzione particolare andrebbe posta sui neonati nutriti esclusivamente con latte artificiale, di cui l'olio di palma è spesso uno degli ingredienti, poiché essi hanno dosi tollerabili inferiori a quelle di noi adulti. A questo proposito, comunque, vi sono dall’EFSA altre rassicurazioni: gli studi hanno dimostrato che negli ultimi anni il contenuto di queste sostanze tossiche nei prodotti si è notevolmente ridotto, poiché le industrie, su base volontaria, hanno modificato i propri processi produttivi (3).

Altra questione di fuoco: l’impatto ecologico. Per produrre tutto l'olio di palma richiesto dall'industria alimentare, infatti, i Paesi produttori (come Indonesia, Cambogia e Malesia) hanno sacrificato altri tipi di colture e abbattuto ettari ed ettari di foresta tropicale, e con essi anche tutta la strabiliante biodiversità vegetale e animale di quei luoghi. Il problema è anche sociale: i contadini più poveri hanno man mano convertito le loro coltivazioni in palme da olio, più redditizie ma poco utili per nutrire adeguatamente le popolazioni locali. La Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo), nata nel 2004, ha negli anni stabilito diversi protocolli per rendere "sostenibile" questa coltivazione. Tuttavia, alcune organizzazioni, come Greenpeace e la Environmental Investigation Agency, hanno criticato l'organizzazione per la mancanza di chiarezza nella definizione dei criteri e, soprattutto, per la continua opera di deforestazione attuata da soci della stessa Rspo (2). Altri standard di sostenibilità, come la norma internazionale sulla sostenibilità (ISCC) o la Rainforest Alliance hanno anche un sistema di certificazione per l'olio di palma sostenibile. Anche Indonesia e Malesia hanno sviluppato i propri standard per l'olio di palma sostenibile certificato. I rispettivi Indonesian Sustainable Palm Oil (ISPO) e Malaysian Sustainable Palm Oil (MSPO) standard (6). Diverse industrie affermano di usare solo olio di palma proveniente da coltivazioni rispettose dell'ambiente, ovvero ottenute da aree già piantate a palme, tuttavia questo non è sufficiente a coprire l’attuale fabbisogno. Altre industrie propongono di compensare le zone destinate alla palma da olio, creando aree forestali in altri punti: tale misura è però indubbiamente insufficiente, poiché è praticamente impossibile ricreare artificialmente da zero un habitat così complesso (1).

Anche in questo caso però, c’è l’altra faccia della medaglia da considerare. Fra tutti gli olii vegetali, la palma da olio è quella con la produttività maggiore (2): in poche parole, se ne produce molta di più a parità di area coltivata. Se quindi pensassimo di sostituirla completamente con altre tipologie di olio per ridurre l’impatto ambientale, otterremmo l’effetto opposto. Inoltre, visti gli alti livelli di occupazione diretta e indiretta che consente nei paesi in cui si produce, è difficile pensare che in quelle economie si possa rinunciare a una coltivazione così importante.

Dunque il discorso è molto più articolato e complesso di quanto possano racchiudere i semplici slogan che animano l’opinione pubblica.

Prima di pronunciare la frase “L’olio di palma fa male, alla salute e all’ambiente” è bene considerare che l’espressione “fa male tout-court è proprio quella che non si dovrebbe mai utilizzare per parlare di un alimento.

ELENA FERRERO

 

FONTI

  1. airc.it
  2. focus.it
  3. efsa.europa.eu
  4. oliodipalmasostenibile.it
  5. ISS 26341/SVSA-AL.22 Risposta al foglio del 09/90/15 n. 34869-P
  6. palmoilandfood.eu

Il primo mese dell’anno è già trascorso e per gli operatori del settore alimentare si accorciano i tempi per adeguarsi a quanto prevede il Regolamento UE 2158/2017, che istituisce misure di attenuazione e livelli di riferimento per la riduzione della presenza di acrilammide negli alimenti.

A partire dall’11 aprile 2018 si applicherà il Regolamento citato, che all’art.1 c2 riporta i prodotti che rientrano nel campo di applicazione: patate fritte tagliate a bastoncino, altri prodotti tagliati fritti e patatine (chips), ottenuti a partire da patate fresche; patatine, snack, cracker e altri prodotti a base di patate ottenuti a partire da pasta di patate; pane; cerali per la prima colazione (escluso il porridge); prodotti da forno fini: biscotti, gallette, fette biscottate, barrette ai cereali, scones, coni, cialde, crumpets e pane con spezie (panpepato), nonché cracker, pane croccanti e sostituti del pane. In questa categoria per "cracker" si intende una galletta secca (prodotto da forno a base di farina di cereali); caffè: caffè torrefatto; caffè (solubile) istantaneo; succedanei del caffè; alimenti per la prima infanzia e alimenti a base di cereali destinati ai lattanti e ai bambini nella prima infanzia, quali definiti nel Reg. UE n. 609/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio.

L’acrilammide è una sostanza genotossica e cancerogena ed è considerata un pericolo chimico nella catena alimentare. Questa sostanza si forma a partire dai costituenti: l’aminoacido asparagina e gli zuccheri naturalmente presenti in determinati alimenti quando vengono trattati termicamente a temperature superiori a +120°C e con un basso grado di umidità.

Questa sostanza tossica si forma soprattutto negli alimenti ricchi di carboidrati cotti al forno o fritti, costituiti da materie prime che contengono i precursori dell’acrilammide. Si tratta in particolare di cereali, patate e i chicchi di caffè.

Nel 2015 l’EFSA ha adottato un parere sull’acrilammide negli alimenti, confermando le conclusioni di valutazioni precedenti ed evidenziando la preoccupazione per la diffusione di questo contaminante negli alimenti di uso comune, molto apprezzati in particolare dai bambini che sono anche i soggetti più esposti, rispetto agli adulti, in base al loro peso corporeo.
Come possono gli operatori del settore garantire ai propri consumatori dei prodotti con la minore presenza possibile di acrilammide?
Il Regolamento fornisce delle indicazioni precise, suddivise per categorie di prodotto.
Occorre indubbiamente lavorare sulla prevenzione, sulle buone prassi, analizzare il livello di formazione e consapevolezza del personale e prevedere degli interventi mirati sulla gestione di questi aspetti specifici.
Ma non basta. Il Regolamento prevede l’obbligo di verificare l’efficacia delle misure preventive mediante campionature ed analisi, ad eccezione degli operatori del settore alimentare che, pur producendo preparazioni rientranti nel campo di applicazione del regolamento, svolgono attività di vendita al dettaglio e/o riforniscono direttamente solo esercizi locali di vendita al dettaglio. Per questa categoria di OSA è richiesto il rispetto delle misure di attenuazione di cui all’allegato II, parte A.
Per gli OSA che operano in realtà più complesse (“…che operano in impianti sotto controllo diretto e nel quadro di un marchio o di una licenza commerciale, come parte o franchising di un'azienda interconnessa di più ampie dimensioni e secondo le istruzioni dell'operatore del settore alimentare che fornisce a livello centrale i prodotti alimentari di cui all'art. 1, paragr. 2…”), si applicano le misure di attenuazione supplementari di cui all'Allegato II, parte B.
Le misure di attenuazione di cui all’allegato II parte A si basano essenzialmente sulla corretta prassi.
Analizziamo, a titolo di esempio, le patate fritte a bastoncino e altri prodotti fritti in olio da patate tagliate.
Al fine di ridurre la formazione di acrilammide si attuano una serie di misure che si basano su:
• Una selezione più accurata della materia prima (per l’utilizzo di patate con un basso tenore di zuccheri)
• Uno stoccaggio delle patate ad una temperatura superiore a +6°C
• Un’istruzione operativa specifica da seguire prima del processo di frittura tra quelle elencate di seguito:
i) lavaggio e ammollo delle patate per 30 minuti fino a 2 ore in acqua fredda, risciacquo e frittura
ii) immersione delle patate in acqua calda, risciacquo, frittura
iii) sbollentamento delle patate
• Una frittura condotta utilizzando oli e grassi che consentono di friggere con maggior rapidità e mantenendo la temperatura di frittura inferiore a +175°C. Occorre inoltre garantire una schiumatura frequente per eliminare briciole e frammenti.
Sono disponibili delle guide cromatiche che forniscono indicazioni sulla combinazione ottimale di colore e bassi livelli di acrilammide e che devono essere esposte in modo visibile nei locali in cui il personale prepara gli alimenti.
Come anticipato, gli OSA che operano in attività più complesse attuano delle misure supplementari.

Sempre in merito alle patate fritte a bastoncino e altri prodotti fritti in olio ottenuti da patate tagliate, il Regolamento prevede che gli OSA garantiscano il rispetto delle condizioni di stoccaggio fornite dai fornitori, l’utilizzo di friggitrici calibrate (per monitorare i tempi di trattamento), controllino il tenore di acrilammide nei prodotti finiti per verificare l’efficacia delle azioni intraprese.

ROBERTA DE NOIA

Il freddo è uno delle modalità più utilizzate per conservare il cibo, fin da tempi antichi. Oltre alla refrigerazione, oggi i metodi più utilizzati sono il congelamento e la surgelazione.

Quali sono i vantaggi? Prima di tutto la più lunga conservazione dell’alimento, permessa proprio dalle basse temperature. Questo, ammettiamolo, è una bella comodità sotto tanti punti di vista: ad esempio, poter disporre di alcuni cibi che si trovano solo in periodi determinati dell’anno, oppure di piatti o sughi già pronti fatti da noi  (che in casi di emergenza ci consentono di avere un buon pasto in quattro e quattr’otto), o ancora poter conservare grandi quantità di un prodotto (che magari si è acquistato "all'ingrosso" per via di uno sconto) per consumarlo diluito nel tempo.
Certo, non tutto si può congelare. In generale, più un alimento ha un elevato tenore d’acqua o di grassi, meno il risultato del congelamento sarà efficace. Ad esempio, se provate a congelare salse a base di uova come la maionese, creme, la besciamella, i budini, o le uova sode, sarà molto difficile che la cosa vada a buon fine. Stesso discorso per alcuni tipi di verdura come cipolle, pomodori, sedano, insalata e cetrioli.
Per tutti gli altri cibi, comunque, ci sono alcune buone norme da seguire prima di procedere al congelamento. Il freddo non “sanifica” l’alimento, rallenta semplicemente i processi che ne determinano il deterioramento. Prima di essere congelato quindi, l’alimento deve essere fresco, pulito, lavato ed asciugato bene. Fra l’altro, è meglio congelare solo le parti commestibili, in modo tale che al momento dello scongelamento non ci siano ulteriori operazioni di mondatura da effettuare. Ovvia regola è poi quella di inserire l’alimento in appositi contenitori o sacchetti prima di congelarlo, sia per fondamentali ragioni d’igiene, sia perché l’aria fredda del congelatore lo “asciugherebbe”, facendogli perdere sapore e morbidezza. Attenzione però a non utilizzare contenitori in alluminio per i cibi acidi (ad esempio preparazioni con succo di limone o pomodoro): il pH basso tende a mobilizzare l’alluminio, che può quindi passare nel nostro cibo.

Il congelamento consiste nel portare un alimento a temperature molto basse. Tali temperature causano la cristallizzazione dell’acqua contenuta all'interno e la conseguente solidificazione del prodotto. Spesso nel linguaggio comune i termini “congelamento” e “surgelazione” vengono usati in modo indistinto, tuttavia, i due processi presentano fondamentali differenze.
Fondamentale per distinguere i due processi (e per la qualità dell’alimento) è la velocità con cui il freddo penetra. Se il congelamento è lento (con temperature superiori a -20° C, tipicamente quello casalingo) si formano pochi cristalli di grandi dimensioni. Come sappiamo, quando l’acqua si trasforma in ghiaccio vi è un aumento del suo volume. Dunque, questi grossi cristalli di ghiaccio fanno “esplodere” le sue strutture cellulari dell’alimento. È per questo che in questo caso, al momento dello scongelamento, vi sarà perdita di acqua e perdita della texture originaria (i cibi ci potranno apparire “afflosciati”). E con l’acqua se ne vanno irrimediabilmente anche le sostanze nutritive presenti!
La “surgelazione” è un congelamento molto rapido (la velocità di penetrazione del freddo in questo caso è > 1 cm/ora). Si tratta di un procedimento industriale, a casa non possiamo farlo con il nostro freezer, poiché occorrono macchinari potenti che portino rapidamente i prodotti a temperature molto basse (nella fase iniziale del processo anche a –80°C, per poi non superare i –18°C). La rapidità è proprio il fattore chiave: i cristalli di ghiaccio che si formano nell'alimento sono di dimensioni molto ridotte (e non danneggeranno quindi le cellule). Allo scongelamento, l'alimento conserverà così la propria texture e i propri liquidi intracellulari. È importante ricordare che il prodotto surgelato deve essere conservato, trasportato e distribuito a temperature inferiori a -18 °C (anche se durante il trasporto e la distribuzione sono tollerate oscillazioni verso l'alto di 3°C): quindi attenzione a mantenere la catena del freddo!
Le tecniche industriali di congelamento sono molteplici, vanno dal porre il prodotto fra due piastre fredde (tipico ad esempio dei cubi di spinaci surgelati), al farlo attraversare sfuso in un tunnel con aria a -40 °C (usato soprattutto per piselli, fagiolini e carote a cubetti), all’immersione del prodotto sigillato in liquidi incongelabili, all’uso diretto di agenti congelanti come l’azoto liquido (-196 °C) o ghiaccio secco (-80 °C) (tranquilli, questi evaporano dopo il trattamento!).

Sottolineiamo una cosa. Nessuna reazione enzimatica è possibile se il 100% dell'acqua di un prodotto è solidificata, tuttavia, la congelazione completa del prodotto è impossibile da realizzare. Quindi le reazioni di degradazione, per quanto molto rallentate, avvengono ugualmente e il prodotto congelato non durerà in eterno, ma avrà anch'esso una shelf life. Il settore dei surgelati è disciplinato dal D.L. 27 gennaio 1992, n. 110 (Attuazione della direttiva 89/108/CEE in materia di alimenti surgelati destinati all’alimentazione umana), mentre i congelati osservano le leggi generali sui prodotti alimentari.
Attenzione va riposta anche al decongelamento del prodotto. Un ottimo metodo è quello di tenere un surgelato per una notte in frigorifero, oppure a temperatura ambiente quando non fa eccessivamente caldo (ma non per carne e pesce e solo nel caso di porzioni di piccole dimensioni). Industrialmente si utilizzano celle o tunnel a temperature variabili da +2 a +10 gradi. Soprattutto per i prodotti crudi, evitare l’utilizzo del forno: potrebbero infatti cuocersi all’esterno ma rimanere ghiacciati all’interno. Se il tempo è poco, si può invece decongelare l’alimento nel forno a microonde (usando il programma “defrost”, che non ne altera le caratteristiche). Il decongelamento sotto un getto d’acqua (calda o fresca che sia) può essere effettuato solo se il prodotto è sigillato in sacchetti. Al contrario, il contatto diretto fra acqua e prodotto in fase di decongelamento può comportare un’ulteriore perdita di vitamine e sali minerali, lo stesso genere di perdita che si verifica attraverso la fuoriuscita di acqua dal cibo, che fisiologicamente si libera col processo di decongelamento. Per questo, potrebbe essere utile cercare - nei limiti del possibile - di conservare questo liquido, riutilizzandolo ad esempio per la cottura dell’alimento. Una volta scongelati, i cibi vanno consumati nel più breve tempo possibile, per evitare l’aumento della carica batterica.
È possibile ricongelare prodotti decongelati? Sì, ma solo ed esclusivamente se il prodotto decongelato viene cotto prima di essere ricongelato. Ad esempio se acquistiamo della carne macinata, la conserviamo in freezer, poi la utilizziamo per preparare del ragù e congeliamo il sugo pronto. Mentre è assolutamente sconsigliato decongelare e ricongelare il prodotto senza cuocerlo.
E dal punto di vista nutrizionale, che cosa cambia? Senz’altro possiamo apprezzare la differenza fra un prodotto fresco e uno surgelato (e ancor di più rispetto a uno congelato), poiché gli alimenti sottoposti a questi processi vanno incontro a trasformazioni delle qualità nutritive e organolettiche. Tuttavia, le modificazioni (soprattutto nel surgelato) sono meno severe di quanto si pensa, anzi. Generalmente, i glucidi subiscono un lento processo di idrolisi (che non comporta una perdita di qualità), mentre le proteine subiscono denaturazione, divenendo addirittura maggiormente digeribili. I grassi possono andare incontro (soprattutto dopo molto tempo) a idrolisi e parziale irrancidimento, soprattutto quelli polinsaturi: è per questo che il pesce particolarmente ricco di polinsaturi della categoria omega-3 (come salmone, sgombro e sardine) sarebbe meglio non acquistarlo surgelato, ma preferire quello fresco o in scatola. I minerali e le vitamine vengono in parte perduti durante il processo di scottatura o blanching (che alcune verdure subiscono prima della surgelazione), tuttavia la perdita è inferiore rispetto ai prodotti in scatola. Anzi, il contenuto di vitamine dei surgelati risulta addirittura superiore rispetto ai prodotti freschi conservati per più di 24 ore. Dunque (dando comunque sempre preferenza ai prodotti freschi e di stagione come regola generale) non facciamoci spaventare dalla parola "surgelato" o "congelato", la cosa più importante è rispettare sempre le buone norme igieniche!

ELENA FERRERO

Fonti:

Decreto Legislativo numero 110 del 27 gennaio 1992

www.guidaconsumatore.com

www.izsalimento.izsto.it