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Cenni storici e curiosità

Alimento prodotto principalmente con farina, acqua, sale e un agente lievitante; impastato, lievitato, formato e cotto in forno. In Medio Oriente e in Europa, l’importanza del pane è sempre stata considerevole, dal punto di vista alimentare e simbolico. Per i cristiani, nell’Eucarestia, il pane rappresenta il corpo di Cristo. Un gran numero di espressioni, inoltre, sottolinea l’importanza del pane: “guadagnarsi il pane con il sudore della fronte”, “levarsi il pane di bocca”, “buono come il pane”.

 Si narra che la scoperta del pane lievitato fu conseguenza di un fatto casuale avvenuto presso un panettiere egiziano, il quale avrebbe dimenticato per diverse ore a temperatura ambiente una pappa di cereali che, contaminata da un lievito naturale o da batteri, sarebbe fermentata e lievitata in seguito alla riproduzione dei microrganismi nella farina.

Il primo agente lievitante utilizzato dagli Egizi fu il fermento o pasta acida, ovvero una pasta lievitata il giorno prima con un lievito naturale e i batteri presenti nell’aria. Gli Egizi furono quindi i primi panificatori professionisti e, a loro, si deve anche l’invenzione del forno con la camera di combustione separata da quella di cottura.

Gli Ebrei avrebbero appreso dagli Egizi a produrre il pane lievitato e durante l’esodo, non disponendo di lievito, avrebbero creato il pane azzimo.

Successivamente i Romani adottarono i procedimenti di panificazione degli Egizi, diffondendoli poi per l’Impero.

Si racconta anche che nel III secolo a. C. i Greci fossero divenuti maestri nella panificazione e che producessero 70 tipi di pane. Furono loro probabilmente i migliori panettieri dell’antichità!

Da quest’epoca si tramanda l’uso del lievito di birra, che produce un pane leggero e gonfio.

Il pane consumato dall’aristocrazia era prodotto da farina setacciata a lungo, mentre il popolo consumava pani integrali, più semplici da preparare. Solo a partire dal Medioevo i pani cominciarono a diversificarsi.

Alla fine del XVIII secolo, negli Stati Uniti fu introdotto l’uso di una forma grezza di bicarbonato di sodio, che consentì di abbreviare i tempi di preparazione del pane. Questa polvere infatti, agisce più rapidamente del lievito grazie al calore della cottura.

A partire dal 1850 l’uso del lievito chimico si diffuse nel mondo intero.

Oggi l’industria della panificazione è molto meccanizzata, in funzione di una produzione di pane su larga scala. La fermentazione naturale della pasta (quando farina e acqua sono mantenute per un certo periodo di tempo a temperatura ambiente) è un processo lungo e imprevedibile.

Per tale motivo si è passati all’uso del fermento, una porzione di pasta fermentata cruda prelevata da una precedente panificazione. Il fermento è acido e ciò inibisce la formazione di batteri patogeni. Comunemente chiamato pasta acida, si deteriora se non viene utilizzato entro una settimana, quindi è necessario aggiungere farina e acqua se lo si vuole conservare più a lungo.

Rinfrescare la pasta acida con aggiunta di acqua e farina prima della panificazione  è un’operazione piuttosto laboriosa. Per questo motivo è stata sostituita dal più pratico lievito di birra, che agisce in modo più rapido ed è costituito da lieviti Saccharomyces cerevisiae. Il lievito è una coltura viva. Industrialmente si produce inoculando una colonia di lieviti su un terreno di coltura generalmente costituito da melassa di bietola, acqua, acido solforico, solfato di calcio, Sali di ammonio, fosfato di sodio e solfato di magnesio.

Il pane nella legislatura italiana

Per tutelare il pane, chi lo produce e chi lo consuma, in Italia la legge ne stabilisce chiaramente le caratteristiche e le eventuali denominazioni.

Negli anni del boom economico e in un periodo storico in cui l’Italia era interessata dalla ripresa e dal fiorire dell'intero sistema produttivo dopo gli anni della guerra, il Parlamento italiano promulgò la legge n.580 del 4 luglio 1967,che disciplinava la lavorazione e il commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste alimentari.

Circa trent’anni dopo fu emanato il DPR 30 novembre 1998, n. 502, recante norme per la revisione della normativa in materia di lavorazione e di commercio del pane.

Al Titolo IIIArt. 14 della Legge n.580 troviamo la definizione di pane comune, ovvero il “prodotto ottenuto dalla cottura totale o parziale di una pasta convenientemente lievitata, preparata con sfarinati di grano, acqua e lievito, con o senza aggiunta di sale comune (cloruro di sodio)”.

La legge (Art. 16) stabilisce il massimo contenuto di acqua da utilizzare all'interno delle varie ricette di pane, qualunque sia il tipo di sfarinato impiegato, ad eccezione del pane prodotto con farina integrale, per il quale è consentito un aumento del 2%:

  • pezzature sino a 70 g, max 29%
  • pezzature da 100 a 250 g, max 31%
  • pezzatura da 300 a 500 g, max 34%
  • pezzature da 600 a 1000 g, max 38%
  • pezzature oltre i 1000 g, max 40%.

Sono definiti altresì i diversi tipi di pane e le relative denominazioni di vendita:

  • il pane prodotto con farina di grano tenero tipo 00 è denominato «pane di tipo 00»;
  • il pane prodotto con farina di grano tenero tipo 0 è denominato «pane di tipo 0»;
  • il pane prodotto con farina di grano tenero tipo 1 è denominato «pane di tipo 1»;
  • il pane prodotto con farina di grano tenero tipo 2 è denominato «pane di tipo 2»;
  • il pane prodotto con farina integrale è denominato «pane di tipo integrale»;
  • il pane prodotto con semola o con semolato di grano duro, ovvero con rimacine di semola o semolato, è denominato rispettivamente «pane di semola» e «pane di semolato».

Secondo il DPR 30 novembre 1998, n. 502 nella produzione del pane possono essere impiegate farine alimentari quali orzo, farro, segale, etc., miscelate con sfarinati di grano. In tal caso il pane prenderà denominazione di “Pane al” seguito dal nome dello sfarinato caratterizzante impiegato, mentre gli altri sfarinati figureranno nell’elenco degli ingredienti.

I diversi tipi di pane - sopra descritti -, devono essere posti in vendita in scomparti o recipienti separati, recanti un cartellino con l’indicazione del tipo di pane e il relativo prezzo.

L’articolo 19 della legge n.580 individua un’altra tipologia di pane, ovvero il pane speciale e nel DPR n. 502 del 1998 sono stabiliti gli ingredienti consentiti: farina di cereali maltati, estratti di malto, alfa e beta amilasi, paste acide essiccate, farine pregelatinizzate di frumento, glutine, amidi alimentari, zuccheri.

È inoltre consentito l’impiego di materia grassa (burro, olio di oliva - escluso l'olio di sansa di oliva rettificato -, strutto), latte, fichi, olive, etc. etc.

Quando nella produzione del pane sono impiegati altri ingredienti alimentari, diversi da quelli previsti dall'articolo 14 della legge 4 luglio 1967 n. 580 e dall'articolo 3 del DPR 30 novembre 1998, n. 502, la denominazione di vendita deve essere completata dalla menzione dell'ingrediente utilizzato e, nel caso di più ingredienti, di quello o di quelli caratterizzanti. Tale pane venduto allo stato sfuso, deve essere tenuto, nei locali di vendita, in scaffali separati.

Inoltre:

  • il pane con aggiunta di sostanze grasse deve contenere non meno del 3% di materia grassa totale riferito alla sostanza secca;
  • il pane con aggiunta di malto deve contenere non meno del 4% di zuccheri riduttori, espressi in maltosio, riferiti alla sostanza secca;
  • il pane con aggiunta di zuccheri deve contenere non meno del 2% di zuccheri riduttori riferito alla sostanza secca;
  • lo strutto commestibile, ottenuto dai tessuti adiposi del suino, è designato con la sola parola strutto;

Ai pani ottenuti con sfarinati alimentari diversi da quelli di grano o miscelati con questi ultimi, nonché ai pani ottenuti con l'aggiunta di altri ingredienti alimentari (strutto, olio, etc.), si applicano le percentuali di umidità descritte nell’Art. 16 della legge 4 luglio 1967, n. 580, aumentate del 10%.

È altresì possibile immettere in vendita pane parzialmente cotto, pane surgelato e pane ottenuto mediante completamento di cottura di pane parzialmente cotto, surgelato o no.

Il pane parzialmente cotto destinato al consumatore finale deve essere contenuto in imballaggi singolarmente preconfezionati recanti in etichetta la denominazione "pane" completata dall’indicazione "parzialmente cotto" e l’avvertenza che il prodotto deve essere consumato previa ulteriore cottura e relative modalità della stessa.

Nel caso di prodotto surgelato, l'etichetta dovrà riportare le indicazioni previste dalla normativa vigente in materia di prodotti surgelati e la menzione "surgelato".

l pane ottenuto mediante completamente di cottura da pane parzialmente cotto, surgelato o non surgelato, deve essere distribuito e messo in vendita in comparti separati dal pane fresco e in imballaggi preconfezionati riportanti oltre alle indicazioni dalla normativa vigente in materia di etichettatura, anche:

  • "ottenuto da pane parzialmente cotto surgelato" in caso di provenienza da prodotto surgelato;
  • "ottenuto da pane parzialmente cotto" in caso di provenienza da prodotto non surgelato né congelato (DPR 30 novembre 1998, n. 502).

Le Legge 4 luglio 1967, n. 580 (rivista in parte con il DPR 30 novembre 1998, n. 502), stabilisce anche che:

  • il pane deve essere venduto a peso;
  • la vendita al pubblico del pane può essere esercitata solo dagli esercizi che abbiano ottenuto la prescritta licenza di commercio, nella quale la voce «pane» sia indicata in modo specifico;
  • il trasporto del pane dal luogo di lavorazione all'esercizio di vendita, deve essere effettuato in recipienti lavabili e muniti di copertura a chiusura, in modo che il pane risulti al riparo dalla polvere e da ogni altra causa di insudiciamento.
  • è vietato vendere o detenere per vendere pane alterato, adulterato, sofisticato o infestato da parassiti animali o vegetali.

È da ricordare infine, che nel 2018 il Ministro dello Sviluppo Economico - di concerto con il Ministro delle Politiche Agricole Alimentari, Forestali e del Turismo e il Ministro della Salute- ha emanato il Decreto interministeriale 1° ottobre 2018, n. 131 in materia di Regolamento recante disciplina della denominazione di «panificio», di «pane fresco» e dell’adozione della dicitura «pane conservato».

Il testo del DM prevede che per “panificio” si intende l’impresa che dispone di impianti di produzione di pane ed eventualmente altri prodotti da forno e assimilati o affini e svolge l’intero ciclo di produzione dalla lavorazione delle materie prime alla cottura finale.

Mentre per quanto riguarda le definizioni di «pane fresco» e «pane conservato» rimandiamo all’articolo pubblicato sulla nostra pagina il 30/07/2020. https://www.facebook.com/TuttoAlimentiConsulenza/photos/a.1283291851789612/3110351649083614/

GENÉ PAUDICE

Nelle migliori cucine, fin dai tempi di Colombo e Marco Polo, il piano di cottura è stato invaso da barattoli di tutti i tipi. Barattoli magici capaci di trasformare la più secca carne alla  piastra,  nel  miglior  piatto  del  secolo.  Barattoli  una  volta colorati, o trasparenti, contenitori di spesso vetro a fiori in rilievo, a volte cupi col tappo a pressione. Ecco signori, questo era il mondo delle spezie vere. Stavano in piccoli scrigni preziosi poiché racchiudevano tesori di incommensurabile valore, senza tempo e da ogni dove. Prodotti della terra raccolti e lavorati a mano e conservati con dei rituali ben precisi, poi tenuti al buio e al fresco e al secco…Beh almeno una volta era così. Quando la curcuma arrivava dall'India raccolta dalla Curcuma longa, una pianta erbacea e perenne, quando lo zafferano era raccolto dai fiori in stimmi   belli,   rossi   essiccati,   tritati   e   profumati,   quando   il peperoncino  era  stato  impilato  sotto  il sole caldo della Calabria e appeso all'aria prima  di  seccare  e  diventare  polvere.

Peperoncino festival Diamante (CS)

Adesso purtroppo non sappiamo più cosa contengono quei barattoli. Si, perché se ci  allontaniamo con  la nostra  lente d’ingrandimento, in maniera esponenziale, dall'antica cucina colorata e dall'odore delle spezie che impregna i banchi di marmo, e guardiamo il mondo così com'è oggi, vedremo degli edifici con locali asettici, componenti in acciaio e l’aspetto del posto simile ad una sala operatoria. Fredde, senza odori, senza sapori e senza sentimenti. Sono i laboratori industriali. Con contenitori d’acciaio e chili e chili di spezie che ci vendono in barattolini costosi ed ermeticamente sigillati.

Particolare della cucina del Castello di Corigliano Calabro

Ma cosa contengono in realtà? Nessuno ce lo dirà mai! Magicamente, al posto della curcuma vera dalle mille proprietà nutraceutiche, è apparsa nei barattolini la curcumina sintetica ottenuta a partire da composti derivati dal petrolio con metodi che prevedono l’uso di acetil-acetone e vanillina, attenzione, anch'essa sintetica!

E invece dello zafferano in polvere sottilissima si vende, il più delle volte, calendula o cartamo a basso costo e magari addizionato al colorante sintetico tartrazina.

Vogliamo parlare poi del peperoncino??Ci si apre un mondo! Il mondo del Sudan.

I coloranti Sudan (I, II, III, e IV) da qualche anno finalmente riconosciuti come cancerogeni e genotossici, sono stati poi banditi in modo assoluto dagli alimenti in tutti i paesi dell’Unione europea con la Decisione 2004/92/CE successivamente integrata ed abrogata dalla Decisione della Commissione 2005/402/CE del 23.05.2005, che è stata la conseguenza di uno dei più grandi allarmi alimentari degli ultimi anni e ha caratterizzato l’attività analitica del peperoncino rosso piccante. Sarà ormai sicuro acquistare peperoncino in polvere? E quando acquistate l’origano? E’ davvero un rompicapo dividere il cisto e le altre erbe che vi addizionano al vero origanum vulgare! Tutte queste adulterazioni delle spezie sono purtroppo ancora possibili poiché molto difficile e dispendioso è effettuare analisi sul prodotto in commercio anche se N.A.S. e IcqRF continuano ogni giorno il loro lavoro d’indagine. Nella curcuma, per esempio, si ricerca la presenza di carbonio-14. L’Abc-American botanical council ha avviato un vero e proprio programma di ricerca delle adulterazioni delle piante utilizzate come spezie e definisce la sostituzione della curcumina naturale con la curcumina sintetica un tipo di attività comune difficile da rilevare nella maggior parte test spettroscopici e analitici. La misurazione dell'isotopo di carbonio, che richiede un sofisticato spettrometro di massa per misurare il 14C nel campione, è il metodo più efficace per determinare se la curcumina è di origine vegetale o di origine sintetica.

Zafferano - Azienda Mallamaci (Motta San Giovanni -RC)

Nel frattempo l’UE si è ancora spinta sui limiti di alcuni contaminanti delle coltivazioni di piante e frutti destinate al consumo umano e delle spezie in Europa (Reg. UE 2018/1516 del 10 ottobre 2018 ) modificando gli allegati II e III del regolamento (CE)n. 396/2005 e restringendo i parametri di alcuni principi attivi che possono essere presenti.

Un consiglio, quindi, potrebbe essere quello di scegliere sempre prodotti meno trattati, magari freschi e da lavorare secondo la tradizione, il meno sminuzzati e impastati possibile e quindi più vicini alla loro origine, più vicini ai “barattoli magici”.

CLAUDIA BUONOFIGLIO

Fin dai tempi più antichi l’uomo ha associato alle piante ed ai loro estratti una capacità curativa (1).

Tra le principali piante utilizzate fin dall'antichità a scopo terapeutico possiamo ricordare la salvia, il papavero, l'assenzio e in particolare l'aglio le cui origini, ancora oggi, sembrano incerte. Ben più note, invece, sono le sue capacità benefiche: antibiotico, antisettico, balsamico, antipertensivo. Questa vera panacea presenta comunque uno svantaggio: l’odore antisociale che lascia a chi lo assume. I responsabili della formazione del tipico odore dell'aglio sono composti solforati contenuti nella pianta, in particolare l'allicina la quale viene liberata quando l'enzima allinasi, normalmente contenuto nel vacuolo, agisce sull'alliina, un composto incolore ed insapore. Tutto ciò accade ogni volta che l'aglio viene “danneggiato”, per esempio durante la masticazione, il taglio, oppure la spremitura; questo è il motivo per cui, invece, gli spicchi interi non hanno odore. Le problematiche dell'aglio relative al cattivo odore possono essere risolte attraverso un processo di fermentazione che vede coinvolti i batteri L. Plantarum e Weissella. Si tratta di un processo che permette di ottenere, a partire dall'aglio fresco, il cosiddetto Aglio nero (Black Garlic), così chiamato in quanto, durante il processo di fermentazione che avviene a temperature e umidità controllate, ne viene modificato il colore (da chiaro a scuro), oltre che il sapore (da amaro a dolce) e la consistenza (da duro a gommoso).

Questo processo di fermentazione sembra andare a modificare anche il contenuto nutrizionale dell'aglio; si assiste, difatti, ad un aumento del contenuto degli zuccheri, dei polifenoli, dei flavonoidi, mentre a diminuire sono i fruttani essendo ampiamente utilizzati durante lo stesso processo di fermentazione.

La durata del trattamento varia in funzione della varietà dell’aglio, del produttore e dei suoi obiettivi, ma solitamente i bulbi di aglio fresco vengono lasciati fermentare per 1 mese circa, dopodiché si lasciano ossidare all’aria per altri 45 giorni.

Secondo un ampio numero di studi scientifici, gli estratti ottenuti dal Black Garlic sono caratterizzati da proprietà antiossidanti, antiallergiche, antidiabetiche, antiinfiammatorie ed antitumorali (2). In particolare, l'estratto metanolico dell'aglio nero e le frazioni da esso ottenute sembrano mostrare effetti antiproliferativi ed epatoprotettivi. Ciò è stato dimostrato attraverso studi condotti in vitro utilizzando la linea cellulare di adenocarcinoma epatico (HepG2). Nello specifico, tramite saggi di vitalità cellulare, è stato dimostrato l'effetto antiproliferativo indotto dal trattamento con l'estratto metanolico dell'aglio nero; attraverso il saggio dell'ossido nitrico, invece, è stato dimostrato che la concentrazione di ossido nitrico (NO) rilevata nel mezzo cellulare aumenta del 36% solo a 2 mg/ml di estratto. Si tratta di un risultato di grande interesse in considerazione delle molteplici azioni fisiologiche (vasodilatazione, trasduzione dei segnali neuronali) e patologiche (apoptosi) che questo secondo messaggero è in grado di esercitare in diversi tessuti. Infine, attraverso il saggio colorimetrico Oil Red O (ORO) è stata evidenziata una diminuzione dell'accumulo di goccioline lipidiche nel citoplasma delle cellule HepG2 trattate con l'estratto metanolico rispetto alle cellule HepG2 non trattate.

Le differenti proprietà biologiche dell'aglio nero, e in particolare dell'estratto metanolico, indicano che rappresenta un alimento potenzialmente utilizzabile per la salute umana al fine di poter contrastare “naturalmente” diverse patologie alle quali l'uomo può andare incontro.

Ulteriori studi sono comunque necessari al fine di individuare e caratterizzare i composti responsabili delle attività biologiche osservate e chiarire i meccanismi molecolari alla base di tali attività.

ROSY MAUCIONE

 

FONTI:

  • Burt S.

Essential oils: their antibacterial properties and potential applications in foods- -a review. Int J Food Microbiol. 2004; 94:223-253.

  • Kimura S., Tung Y.C., Pan M.H., Su N.W., Lai Y.J., Cheng K.C.

Black garlic: A critical review of its production, bioactivity, and application. J Foof Drug Analysis. 2017; 25:62-70.

Quando scegliamo un alimento, il colore è una variabile molto importante nella nostra decisione finale. Alcuni alimenti sono dotati di un colore caratteristico già in origine, altri lo acquisiscono durante i processi di lavorazione, come ad esempio il beige della crosta del pane o il rosa del prosciutto cotto. Appena sente la parola “colorante”, il consumatore inizia subito a storcere il naso – come dargli torto, dopotutto –, è però importante sapere che esistono molti coloranti naturali (pigmenti), che ricaviamo proprio da piante che in natura possiedono già un colore caratteristico. La bella notizia è che molto spesso questi pigmenti naturali, oltre a deliziarci gli occhi con sgargianti colori, hanno anche effetti positivi per la salute umana.

È il caso della curcumina (E100), contenuta nella curcuma (Curcuma longa) – per secoli usata come tintura gialla per tessuti - o dei carotenoidi (E160a) – di cui il principe è il beta-carotene -, che danno il classico colore alle carote, ai cachi, al mango, alle alghe rosse e anche al famigerato olio di palma (che non a caso viene anche usato per conferire il colore giallino alle margarine). Il carotenoide forse più famoso – e positivissimo per la salute – è il licopene (E160d), che è il responsabile del colore rosso accesso del pomodoro e di tanti altri vegetali rossi. Come non pensare, poi, al caratteristico colore che lo zafferano conferisce ai gustosi risotti? Esso è dovuto a un altro carotenoide, la crocetina. Da sottolineare l’elevato costo di questo prezioso colorante naturale: sono infatti necessari ben 150 000 stigmi dei fiori di Crocus sativus per produrre 1 kg di spezia. Ma i carotenoidi non si trovano solo nel regno vegetale! Il bel colore acceso del tuorlo d’uovo è infatti dato da tipologie di carotenoidi detti luteina e zeaxantina, che la gallina ottiene proprio dall’alimentazione vegetale (da qui, è facile capire come il colore del tuorlo cambi molto a seconda di come l’animale viene nutrito).

Se pensavate di non aver mai mangiato insetti in tutta la vostra vita (discorso piuttosto attuale, visti gli ultimi aggiornamenti legislativi sul tema), forse vi sbagliate! L’acido carminico (E120) della cocciniglia, che dona appunto un vivace colore rosso carminio, viene estratto dai Coccus cacti, insetti simili ad afidi, parassiti dei cactus.

Altro rosso intenso è quello della barbabietola (Beta vulgaris), dovuto al pigmento betaina (E162), che riesce a colorare di porpora anche i nostri denti!

Un altro interessante pigmento – dal colore verde acceso - è la clorofilla (E140), ricavato dall’erba medica essiccata e macinata. Lo ritroviamo nella buccia delle mele e in tutti i frutti acerbi, nei piselli e in tutti gli ortaggi verdi.

Ma i pigmenti di gran lunga più diffusi e conosciuti sono le antocianine (E163), che possiamo ritrovare in una grandissima varietà di cibi, dai frutti di bosco, al cavolo rosso: essi colorano frutta, verdura, legumi e cereali (ma anche i fiori!) di rosa, rosso, viola e blu. A loro sono anche dovute le mille sfumature dei vini rossi.

Dunque, che aspettiamo? Godiamoci tutto l’arcobaleno dei cibi!

ELENA FERRERO

Fonte: "La biochimica degli alimenti" Tom P. Coultate, Ed. Zanichelli, 2005.

Le vitamine sono spesso associate nell'immaginario collettivo più a pillole e pasticche che ad alimenti. Checché ce ne dicano industrie e pubblicità, tuttavia, benché l’alimentazione umana sia variata molto dall'antichità ai giorni nostri, possiamo ancora ottenere tutto ciò di cui abbiamo bisogno per mantenere un buono stato di salute dal cibo tal quale, basta fare scelte oculate e consapevoli quando si tratta di fare la spesa. Per di più, anche il pensiero preventivo del “va beh, io ne prendo in abbondanza, mal che vada me le tengo per quando mi mancano”, non è sempre vero, anzi. Gli integratori sono comunque molto utili (e consigliati) in stati fisiologici particolari (come la gravidanza) o patologici (come in caso di malnutrizione, carenze specifiche, ecc).

Ma cosa sono le vitamine? Beh, non è facile definirle, in quanto sono un gruppo molto eterogeneo di sostanze, con una struttura organica generalmente complessa, ritrovate in diversi materiali biologici (non solo alimenti!). Le varie vitamine, insomma, dal punto di vista chimico non hanno nulla in comune ed è risultato piuttosto difficile per gli scienziati dell’epoca classificarle. Tuttavia, ci sono quattro aspetti che le riguardano tutte:

  • Sono costituenti essenziali di sistemi biochimici o fisiologici della vita animale (e spesso anche di quella vegetale e microbica!), dunque anche per l’uomo;
  • Gli animali hanno perso, in seguito all’evoluzione, la capacità di sintetizzarle in quantità adeguate, devono perciò essere assunte dall’esterno;
  • Le ritroviamo, solitamente, in quantità molto modeste (rispetto a sostanze come acqua, proteine, carboidrati, lipidi e fibre) nei materiali biologici;
  • La loro assenza nell’organismo determina delle sindromi specifiche, sintomo della loro carenza.

Già nell’antichità si sapeva che molte delle nostre malattie derivano da carenze alimentari. Pensate che nel papiro di Eber, risalente al 1150 a.C., si ritrovava già una precisa descrizione dello scorbuto - patologia causata dalla carenza di vitamina C - che già si associava alla dieta povera dei marinai, costretti a consumare solo alimenti conservati, trasportabili sulle navi durante i loro lunghi viaggi. Essi manifestavano emorragie gengivali, apatia, irritabilità, perdita di peso, dolori muscolari e articolari: le vecchie ferite cedevano e le nuove stentavano a guarire. Ma già Ippocrate, nel 420 a.C., ne era a conoscenza. Solo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX, tuttavia, tale misteriosa malattia è stata sconfitta, scoprendo che bastava del semplice succo di limone a far regredire la sintomatologia. Allo stesso modo, fin dal 2600 a.C., gli erbari cinesi descrivevano il beriberi, la patologia causata dalla carenza di vitamina B1.

Malgrado fosse stato notato fin da subito il legame con il regime alimentare, solo a partire dal XX secolo si inizia ad accettare l’idea che queste (e altre) malattie potessero essere causate dall’assenza di qualcosa di essenziale, più che dalla presenza di qualcosa di dannoso. Ad esempio, la pellagra – malattia causata dalla carenza di vitamina B3 – veniva collegata al consumo di mais avariato e non alla mancanza di tale vitamina nel cereale, protagonista delle diete poverissime del tempo.

Alla scoperta della vitamina B1 si riconduce il primo rudimentale modello sperimentale animale sull’argomento. Nel 1886 giunge in Indonesia il Dottor Christian Eijkman, per indagare che cosa provoca la malattia nota come beriberi, nome che in malese significa "pecora" (poiché i poveri affetti dalla patologia, in seguito a ptosi del piede, camminano senza appoggiare le dita del piede e il tallone, tenendoli sollevati da terra e sollevando la gamba più del normale, al pari di alcuni animali).

Mentre è alla ricerca dell’agente batterico che si riteneva esserne la causa, egli nota una somiglianza della malattia con una sindrome di paralisi che si manifestava nei polli. Nessuno fa alcun collegamento con l’alimentazione degli animali, finché la sindrome improvvisamente scompare in concomitanza con un cambiamento della dieta dei pennuti: dal riso sbramato a quello integrale. Eijkman intuì e in seguito confermò la relazione fra la dieta e la patologia, osservando che l’incidenza del beriberi nei prigionieri giavanesi a cui venivano date razioni di riso sbramato era del 2,8%, mentre quasi si annullava (0,09%) in quelli nutriti con il riso integrale. Qual era il misterioso fattore che determinava le diverse proprietà dei differenti tipi di riso? Senz’altro si trattava di una sostanza chimica, intuì, poiché gli estratti chimici o acquosi della crusca di riso davano lo stesso risultato. Circa 25 anni dopo, il dottor Casmir Funk si avvicinò all’isolamento del “fattore anti-beriberi” dalla crusca di riso. Fu proprio Funk che, sospettando che tale fattore potesse essere dal punto di vista chimico un’ammina, inventò la parola vitamine, dall’unione dei termini vital e amine (ammina vitale). Quando, in termini decisamente più recenti, fu chiaro che le altre sostanze di questo genere non erano affatto ammine, si rimosse la “e” finale dal termine inglese, che rimase vitamin.

Man mano che la scienza proseguiva, anche i metodi di ricerca si raffinavano. Studi dei primi del Novecento su ratti nutriti con razioni purificate di proteine, grasso, amido e minerali suggerirono la necessità di “fattori di crescita”, che nelle loro diete volutamente mancavano. McCullom e Davis ipotizzarono l’esistenza di due di questi, uno da loro chiamato “fattore liposolubile A” (che doveva trovarsi nel grasso del latte e nel tuorlo d’uovo) che sembrava prevenire la cecità notturna, e l’altro denominato “fattore idrosolubile B” (che invece si ritrovava in frumento, latte e tuorlo d’uovo). Negli anni ’20 si inizio a impiegare il termine “vitamina C” per indicare un fattore idrosolubile sconosciuto che si ritrovava in frutta e verdura e che sembrava prevenire lo scorbuto. Nello stesso periodo viene isolato un altro fattore solubile nei grassi, ma diverso dalla vitamina A, coinvolto nella prevenzione del rachitismo: si coniò così il termine “vitamina D”. Col passare del tempo si capì che il “fattore idrosolubile B” era composto da un insieme di diverse vitamine (oggi si parla di complesso vitaminico B), di natura chimica anche diversa.

Certo il percorso che portò all’identificazione di tutte le vitamine oggi conosciute fu lungo e complesso. Si pensi che per isolare la vitamina B5 furono necessari ben 250kg di fegato di pecora! È grazie a queste valorose pecore, che oggi… ehm, torniamo seri. È grazie al complesso lavoro e alla determinazione nel perseguire la scienza di studiosi e studiose che oggi conosciamo la preziosa importanza delle vitamine nella nostra alimentazione.

ELENA FERRERO

Fonte: "La biochimica degli alimenti" Tom P. Coultate, Ed. Zannichelli, 2005.